Riflessioni sulla coppia: terapia di coppia e sostegno psicologico

Riflessioni sulla coppia: conflitto e violenza

coppiaCon l’ultimo “femminicidio” di pochi giorni fa il numero di donne uccise dall’inizio dell’anno è arrivato a 49! E purtroppo questa è solo la punta dell’iceberg. Il numero di coppie  che vive in situazione di conflitto è difficile da calcolare ma sicuramente molto grande. Fortunatamente non tutte finiscono in omicidio o violenza, ma la sensazione è che il fenomeno sia molto diffuso. Questo è confermato anche nella realtà in cui viviamo, la richiesta di Terapia di coppia a Monterotondo copre circa la metà di tutte le richieste di intervento psicologico. Cosa sta succedendo? E’ cambiato qualcosa o è sempre stato così ed ora ce ne accorgiamo di più grazie ai mass media?

La coppia, intesa come relazione più o meno duratura tra due individui di sesso diverso, esiste in natura, almeno nel mondo animale, ed il suo significato biologico è la riproduzione e quindi la continuità della specie. Tra i mammiferi ci sono molti esempi di animali che formano coppie che durano molto più del tempo necessario alla procreazione e all’accudimento dei piccoli, per esempio i lupi formano coppie che durano anche per tutta la vita.

Quando ci occupiamo dell’essere umano, come sempre, le cose si complicano moltissimo.  La sola biologia non basta ad analizzare e cercare di capire le complesse dinamiche di coppia che si creano tra due esseri umani, basti pensare a sempre crescente numero di coppie omosessuali, il cui scopo principale non è certo la procreazione. Quindi oltre la biologia abbiamo bisogno della psicologia, della sociologia, dell’antropologia per cogliere l’intreccio di fattori culturali, sociali, ambientali, storici che regolano i rapporti di coppia nelle società così dette evolute e civili.

E’ indubbio, tutti lo cogliamo, che ci sia una forte spinta a formare delle coppie, tanto che nella maggior parte delle culture, la coppia è l’elemento base su cui si basa la società, o forse sarebbe meglio parlare di famiglia, che altro non è che la coppia dopo che ha espletato il suo compito biologico, la riproduzione. Ma, come detto prima, “l’uomo” è andato oltre, infatti possiamo vedere molte coppie che scelgono consapevolmente di non avere figli. Dobbiamo quindi ipotizzare una “spinta” verso la formazione di una coppia che risponde ad altre esigenze, di natura più psicologica*.

La ricerca del partner.

Perché, allora, tendiamo a cercare un partner? Probabilmente la risposta più semplice ed immediata è “perché non ci piace stare soli”, e questa risposta trova riscontro in moltissimi studi ed in molte teorie della moderna psicologia. Il bisogno di contatto (anche e soprattutto fisico), il bisogno di riconoscimento, il bisogno di condividere le esperienze che facciamo sono ormai universalmente riconosciuti come caratteristiche distintive degli esseri umani. A questo ovviamente vanno aggiunti fattori culturali (“comunque ad una certa età ci si sposa”), economici (trovare un buon partito), politici (durante il fascismo il matrimonio era quasi un obbligo sociale) che fanno sì che l’istituzione coppia abbia avuto un grande successo nella storia dell’uomo. Ma dato che noi siamo psicologi, vediamo di analizzare la cosa da un punto di vista psicologico. Quindi le domande che ci porremo sono: Con quale criterio scegliamo il nostro o la nostra partner? Come mai a volte sembra che scegliamo la persona più sbagliata possibile? Come mai portiamo avanti ottusamente relazioni che evidentemente non funzionano?  Perché a volte diventiamo aggressivi e violenti invece di andarcene semplicemente? Naturalmente qui faremo solo delle ipotesi, se sapessimo rispondere con assoluta certezza a queste domande avremmo risolto uno dei più grandi problemi dell’umanità.

Possiamo cominciare prendendo in esame una cosa semplice e lampante: nasciamo tutti “da” una relazione di coppia (ci vogliono due individui di sesso diverso, anche se oggi esistono tecniche tali che permettono di avere un figlio anche da soli) ed “in” una relazione di coppia,   quella composta da noi stessi e da nostra madre. Questa relazione è fondamentale per la nostra sopravvivenza (senza la mamma un piccolo umano non è in grado di cavarsela) ma anche per il nostro sviluppo fisico e psicologico. Probabilmente proprio questa relazione madre-figlio sarà alla base di tutte le altre relazioni della nostra vita, ed in particolare alla “relazione di coppia”.

Emotività: un codice che si crea fin dalla nascita

Ci serve una piccola digressione sul nuovo nato: chi è? Cosa vuole? Come funziona? Le teorie psicologiche sono molte, ma alcuni punti sono sicuramente condivisi ed in sintonia con il comune buon senso. I neonati sono “individui”, vale a dire delle unità psico-fisiche perfettamente funzionanti, dotate di tutte le risorse e le strategie necessarie per sopravvivere, a patto che ottengano la “collaborazione” dell’ambiente in cui vivono (fondamentalmente la madre).

Quello che vogliono è sostanzialmente avere risposte ai propri bisogni, in fretta e adeguate.

Funzionano per lo più secondo il principio del piacere-dispiacere, se tutto va bene se ne stanno tranquilli, altrimenti mettono in atto le loro strategie per ottenere il piacere e ristabilire l’equilibrio. Così il bambino ha fame – strilla fino a che non viene nutrito – poi torna tranquillo. Sembra tutto semplice e lineare, potrebbe funzionare bene, ma……..  possono  succedere molti “incidenti”. Ad esempio la madre potrebbe non riuscire ad interpretare il bisogno del bambino (lui ha mal di pancia e la madre gli dà cibo), oppure per qualche motivo non ha voglia di occuparsene, o magari il bambino è istituzionalizzato. Quindi il nostro bambino cresce apprendendo quali “strategie” funzionano nel suo ambiente e quali no, inoltre crescendo acquisisce nuove abilità (motorie, linguistiche, logiche, sociali) che userà per crearne di nuove, più sofisticate, mentre il suo ambiente si allarga sempre più (dalla famiglia alla scuola ai gruppi di pari, al mondo del lavoro, alla società in genere). Fondamentalmente scopre che per ottenere soddisfazione ai propri bisogni non basta a sé stesso, ha bisogno “dell’altro” (per ottenere cibo non basterà più strillare, bisognerà imparare a chiedere e ad attendere, e ad un certo punto anche procurarselo da solo). Anche i bisogni cambiano, e si fanno più complessi. Dai primordiali bisogni di nutrimento, accudimento (coccole), calore al bisogno di riconoscimento, di conoscenza, di autonomia, di struttura, che mi sento di definire “sani” ai bisogni reali o indotti che la nostra società ha creato (bisogno di i-phone?), meno sani, ai bisogni “nevrotici”, “non sani”.

Credo che possiamo suddividere le strategie in due grandi categorie: quelle basate sulla collaborazione e quelle basate sulla manipolazione. Naturalmente non dobbiamo considerarle come categorie assolute, spesso i due aspetti si fondono. Le strategie collaborative si basano sul riconoscimento dell’altro come individuo uguale a noi e portatore di bisogni proprio come noi. Quindi andranno nella direzione: “vediamo come è possibile trovare insieme soddisfazione ai nostri bisogni” e presuppongono la capacità di rinunciare a qualcosa. Le strategie manipolative si basano sul riconoscimento dell’altro unicamente come soggetto che può rispondere ai nostri bisogni e vanno nella direzione:” come posso costringerlo?”, l’ipotesi di rinunciare è molto remota.

Coppia e sessualità.

Torniamo alla nostra coppia. Abbiamo visto quanti elementi concorrano alla costruzione di una relazione adulta, psicologici, ambientali, sociali ecc., ma noi ci stiamo occupando di una particolare relazione, quella tra due adulti, che in qualche modo decidono di condividere parti importanti della loro vita. E qui entra in ballo un altro elemento, dirompente, la sessualità. Questo è l’ambito più “immediato” (nel senso che ha poche mediazioni di tipo sociale-linguistico, ci riporta al primitivo ambito senso-motorio) della relazione e quello in cui si manifestano più direttamente (e a volte drammaticamente) i conflitti.

Ora forse abbiamo le idee un pochino più chiare sui criteri con i quali scegliamo il partner: deve essere in grado di soddisfare i nostri bisogni, dai più arcaici (poco consapevoli) a quelli reali e, ahimè, soprattutto a quelli nevrotici. Lo stile con il quale cercheremo di ottenere la nostra soddisfazione sarà quello che abbiamo appreso nella nostra infanzia e poi perfezionato nell’arco della nostra vita. Inoltre probabilmente cercheremo quelle persone che somiglino il più possibile alle nostre figure di riferimento in modo da trovarci su un terreno “conosciuto”, anche se la maggior parte delle volte ha funzionato male. E questo che ad un osservatore esterno appare come “scelta sbagliata” (“non capisco proprio perché quei due stiano assieme”). E’ sbagliata se pensiamo ad un rapporto ideale, è giusta se risponde ai criteri di cui sopra: ricreare una situazione nota, nella quale in qualche modo me la sono cavata, senza riuscire a immaginare niente di diverso. E questo risponde alla domanda “perché certe relazioni vanno avanti anche quando sembrano terribili?”.  E comunque la paura di “perdere tutto” è spesso ciò che sostiene la relazione.

Forse il quadro che emerge è un po’ fosco, ma devo dire che la mia lunga esperienza clinica nella terapia di coppia, ma ancor più la mia esperienza di vita (quella che abbiamo tutti), mi hanno restituito l’idea di una “istituzione” veramente in crisi, in cui i conflitti la fanno da padroni, certo con tutte le sfumature possibili come detto all’inizio.

Sostegno psicologico: La terapia di coppia.

Infine qualche parola sulla terapia di coppia o meglio “della coppia”. In ogni relazione di coppia ci sono tre elementi: i due partner e la relazione. E’ evidente che si può pensare di intervenire su ognuno dei tre elementi o anche su tutti. Personalmente ritengo che il primo passo sia capire se la coppia ha ancora (se mai lo ha avuto) uno “spazio” in cui costruire o ricostruire una relazione sufficientemente sana. Se questo non c’è credo sia dovere del terapeuta aiutare la coppia a fare una buona separazione (compito di solito non facile). In secondo luogo valutare le rispettive motivazioni, risorse e capacità al fine di impostare un lavoro di presa di consapevolezza dei meccanismi che regolano il funzionamento della coppia (secondo lo schema sinteticamente mostrato in questo articolo), ed infine esplorare le possibilità di cambiamento. Non escludo una prima fase in cui uno dei partner (o anche tutti e due) faccia un breve percorso individuale al fine di rendere più equilibrato il successivo lavoro. In un buon funzionamento della coppia c’è veramente molto da guadagnare per tutti, per i partner, per i loro figli e per tutto l’ambiente circostante. Ovviamente non necessariamente c’è bisogno dell’intervento dello psicologo, a volte basta dedicare un po’ di tempo a parlarsi, esprimere con chiarezza e senza paura i nostri bisogni, rendersi conto che la coppia necessita impegno e non dare mai nulla per scontato.

 

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Genitore e genitorialità. Scopriamo quali sono le differenze

genitorialitàGenitore e genitorialità: quali differenze.

Genitorialità, questo termine è ormai entrato nel vocabolario corrente e come spesso capita se ne usa ed abusa, non sempre con cognizione di causa. Il termine richiama immediatamente la parola genitore (colui o colei che genera), termine sul quale siamo più o meno tutti d’accordo. Dal punto di vista biologico (ci limiteremo a parlare del mondo animale) quando due individui della stessa specie si accoppiano e producono una nuova vita, diventano “genitori”, ed in genere sanno abbastanza bene cosa devono fare, nel senso che hanno già dentro di loro gli schemi comportamentali necessari per garantire al neo-nato/a le migliori possibilità, non solo di sopravvivenza, ma di sviluppo armonico, di apprendimento di tutte le abilità necessarie per vivere una vita soddisfacente e, non ultimo, la possibilità di diventare a sua volta “genitore”.

E’ evidente come quando cominciamo ad occuparci degli esseri umani le cose si facciano più complicate. Mentre per gli animali, salvo alcune eccezioni, il ruolo di genitore spetta esclusivamente o quasi alla madre, negli esseri umani la coppia genitoriale tende a mantenersi anche dopo il concepimento e la nascita di una nuova vita, e questa condizione tende a durare per periodi molto lunghi, a seconda del periodo storico e della cultura in cui si vive. Gli animali esercitano la funzione genitoriale per periodi di tempo più o meno lunghi, ma nessun altro mammifero, come l’uomo, per anni e a volte decenni. Nei secoli, con il cambiare delle culture, le rivoluzioni nei campi della conoscenza e dell’organizzazione, le nostre società si sono fatte sempre più complesse, e di conseguenza anche il ruolo e le funzioni richieste ai genitori si sono notevolmente complicati. Tanto che abbiamo coniato il termine “genitorialità”.

La definizione che ne danno i dizionari è piuttosto lapidaria: “La condizione di genitore e, anche, l’idoneità a ricoprire effettivamente il ruolo di padre o di madre.”, ma apre una serie di domande a cui non è facile dare risposta. “Idoneità” richiama immediatamente altri termini: capacità, adeguatezza ecc. e ci porta alla domanda che tutti (o quasi) si pongono: “Ma com’è un buon genitore, e cosa fa?

Ora, diremo subito che non esiste né una definizione, né un codice di comportamento, né un manuale per diventare buoni genitori. Se per una gatta garantire al proprio cucciolo di poter mangiare, di non essere mangiato, di poter crescere fino a potersela cavare da solo apprendendo le abilità necessarie, nonché provvedere anche all’aspetto “psicologico”, ovvero una quantità adeguata di coccole, è già cosa piuttosto complicata, possiamo immaginare quanto sia difficile garantire ad un cucciolo umano, in una società sempre più complessa, caratterizzata da rapporti interpersonali sempre più difficili, con livelli di competitività elevatissimi, una crescita ed uno sviluppo adeguati a renderlo capace di essere “felice”.

Finora ho trattato l’essere umano alla stregua degli altri animali, ma questo è chiaramente troppo riduttivo. Gli esseri umani si differenziano dagli altri animali nella esplicazione della genitorialità, non per l’aspetto biologico, ma per quello che definiremo psicologico. La genitorialità non si esaurisce nell’atto della procreazione ma essa produrrà significativi cambiamenti sia individuali che relazionali che determineranno tutta la vita di un individuo. Intanto, come detto, nelle culture contemporanee è la coppia genitoriale che ha il compito di allevare, proteggere, istruire, preparare e possibilmente amare la prole. Quindi è fondamentale la dimensione di coppia, e di una coppia particolare: la coppia genitoriale.

Non basta generare un figlio per diventare genitori.

Ma tutti sono in grado di essere genitori? Se da un punto di vista biologico la risposta è si, basta aver raggiunto la maturità sessuale, da un punto di vista psicologico le cose sono più complesse. Non basta generare un figlio per diventare genitori, possiamo invece pensare ad uno sviluppo della personalità umana che passa attraverso delle fasi. Possiamo chiamarle (usando la terminologia di Berne) la fase del Bambino, dell’Adulto e del Genitore. Queste fasi sono solo parzialmente legate all’età anagrafica. Certo nessuno considera un bambino di 7 anni come un adulto, ed in effetti a 7 anni non abbiamo gli  strumenti  e le capacità per occuparci di un altro bambino. Per contro non è detto che a 40 anni tutti abbiano sviluppato una capacità genitoriale. Inoltre abbiamo già accennato alla dimensione di coppia, sappiamo tutti per esperienza come passare da una dimensione individuale ad una di coppia possa essere un percorso tortuoso, che richiede una riorganizzazione a livello psicologico, una presa di coscienza profonda dell’esistenza dell’altro/a e dei suoi bisogni, dei possibili (o quasi certi) conflitti che questo determinerà e della necessità di operare dei compromessi e delle rinunce. Insomma già questo appare un compito non facile, ma qualora si sia riusciti in questa ardua impresa, al momento della nascita di un figlio/a bisogna ricominciare daccapo. La dimensione non è più quella della coppia, ma di un trio (per il primo figlio, poi le cose si complicano ancora di più), e per giunta non è più un rapporto paritario (almeno così si spera in un rapporto di coppia), ma un rapporto assolutamente sbilanciato, dove i bisogni e le necessità del piccolo devono necessariamente essere posti in primo piano. La dolce mogliettina che prima si occupava di te con tanto amore ora è completamente presa dal nuovo/a arrivato, il dolce maritino, sempre premuroso ora mal sopporta la situazione e tende ad allontanarsi, manca il tempo e lo spazio per la vita di coppia, in compenso il piccolo/a richiede (e spesso a gran voce) continua attenzione e cura. Insomma il cambiamento è imponente e richiede una grande capacità di adattamento.

Essere genitori significa avere a che fare con un organismo che cresce, che cambia, soprattutto nei primi anni , ad una velocità impressionante. Nell’arco di sei anni si passa da una creatura capace più o meno solo di manifestare i suoi bisogni strillando ad un individuo dotato di linguaggio e capacità di relazione (nonché di manipolazione). In altre parole le esigenze e i bisogni del bambino cambiano continuamente man mano che cresce ed è necessario che i genitori si adeguino a questi cambiamenti. Esempio banale: alla nascita il bambino viene allattato (sperabilmente al seno), poi comincia a mangiare delle pappe per cui deve essere imboccato, poi piano piano comincia a mangiare di tutto e anche a farlo da solo. Questi passaggi sono determinati dallo sviluppo fisiologico, ma anche culturale. Insomma, se immaginiamo una mamma che continui ad imboccare suo figlio anche quando ha 10 anni ci rendiamo conto che qualcosa non va, anche se tutti e due apparentemente sono soddisfatti, la mamma perché può continuare a fantasticare di avere un bimbo piccolo da accudire, il bambino perché non deve impegnarsi ad apprendere nuove abilità. Ma il risultato sarà un bambino regredito, non pronto ad affrontare le sfide che il mondo gli porrà.

Più il figlio cresce, meno ha bisogno di interventi da parte dei genitori, anzi, il suo bisogno più importante è proprio quello di conquistare la sua autonomia e quindi dovremmo vedere un percorso al contrario che piano piano riporta la coppia al suo stato di partenza secondo lo schema  coppia>coppia genitoriale> coppia. Durante questo percorso entrano in gioco molti elementi: le esperienze che ognuno di noi ha fatto con i propri genitori ed il modo in cui le ha interiorizzate; i dettami culturali in cui il processo avviene e che suggeriscono modelli genitoriali diversi; le condizioni socio-economiche-culturali; nonché le caratteristiche personali del bambino, che non è una “tabula rasa” su cui i genitori scrivono, ma un individuo complesso che partecipa attivamente al processo stesso.

Le funzioni della genitorialità.

Insomma, ciò che definiamo genitorialità  è qualcosa di molto vasto e complesso, per mettere un po’ di ordine possiamo  analizzare le sue funzioni o meglio i suoi modi di esprimersi ed in maniera schematica possiamo individuare:

FUNZIONE PROTETTIVA –  non solo la protezione dai pericoli e dagli elementi esterni potenzialmente dannosi, ma anche protezione da stimoli interni (il bambino che ha mal di pancia sarà sicuramente sollevato dalle attenzioni di un genitore). Questa funzione è alla base dell’attaccamento che tanto determinerà i futuri rapporti del bambino.

FUNZIONE AFFETTIVA – parliamo qui della “sintonizzazione affettiva” da parte dei genitori con il loro piccolo, la voglia di vivere emozioni positive insieme a lui e la creazione di uno “spazio affettivo” entro il quale potrà crescere.

FUNZIONE REGOLATIVA – Il bambino ha bisogno di organizzare e regolare i suoi stati emotivi e le sue risposte comportamentali, le cure dei genitori lo aiutano in questo processo evitando di dare risposte che non gli  lasciano il tempo di esprimere adeguatamente i suoi bisogni o , al contrario di non dare risposte o ancora di dare risposte non in sincronia con i bisogni stessi. Per esempio, rispetto al cibo, rispettare il ciclo appetito>manifestazione>soddisfazione e non cercare di prevenire continuamente l’appetito o magari costringerlo a mangiare qualcosa che non vuole.

FUNZIONE NORMATIVA – consiste nella capacità di dare dei limiti, una struttura di riferimento, una cornice e corrisponde a quel bisogno fondamentale del bambino che è i bisogno di avere dei confini, di vivere dentro una struttura di comportamenti coerenti. Questo comporta da parte dei genitori la capacità di dire  “no”, di accettare un po’ di frustrazione da parte di loro figlio, non come qualcosa che lo danneggerà, ma al contrario qualcosa che lo rafforzerà e lo renderà capace di vivere adeguatamente in ambito socia

Genitori imperfetti.

In conclusione possiamo dire che il concetto di Genitorialità sfugge ad una facile definizione, sicuramente cambia con i tempi, le culture, le aree geopolitiche ed economiche. Ma di sicuro c’è un elemento fondante comune: la capacità di garantire ai nuovi nati la possibilità di uno sviluppo sano, durante il quale siano rispettati i bisogni, le aspirazioni, le necessità di ogni individuo. Come già detto, non esistono manuali o regole precise, e bisogna aver ben chiaro che non esiste il genitore perfetto, quello che non sbaglia mai e fa sempre la cosa migliore, esiste invece il genitore che si interroga, che riflette sui propri stati d’animo, che conosce e “riconosce” la propria storia e ne trae insegnamento, che rispetta sempre suo figlio in quanto “essere umano autonomo” e che, soprattutto, lo ama …. senza se e senza ma.

 

Centro Psicologia Monterotondo.

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Attacchi di panico: sintomi, cause e trattamento

Cos’è un attacco di panico. 

Il Disturbo da attacco di Panico è uno dei disturbi più comuni ed è una delle patologie su cui si è più discusso negli ultimi anni. Si tratta di un disturbo che può comportare anche gravi disagi personali, lavorativi e sociali e ha una rilevante diffusione e l’età di esordio del disturbo di panico si colloca tra l’adolescenza ed i 30/35 anni. Nonostante le manifestazioni cliniche del disturbo siano simili nei due sessi, le donne hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo rispetto agli uomini, infatti viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne (Apa, 2013).

Inoltre, sono frequenti le ripercussioni negative sulla qualità della vita, quali abuso di alcool, droghe o farmaci, e problemi economici, familiari e relazionali. Il primo attacco di panico si può verificare per diverse ragioni, ma possiamo vedere dalla storia dei pazienti che molto spesso coincide con un periodo di tensione o di stress elevati.

I fattori di rischio.

Sono considerati fattori di rischio:

  1.  eventi stressanti incentrati sulla separazione (per es. lasciare la casa dei genitori per andare a vivere da soli, lasciare la famiglia per lunghi periodi per ragioni di lavoro o altro, divorziare);
  2.  instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere equipaggiati per affrontare adeguatamente i pericoli della vita;
  3.  familiarità: molti studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo;
  4.  fattori stressanti esterni quali la malattia o la morte di una persona cara, la presenza di malattie in famiglia, la propria malattia, problemi relazionali con il coniuge o i parenti, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi incontrollabili e/o imprevedibili, ecc.;
  5.  fattori stressanti interni che sono rappresentati dal modo in cui siamo abituati ad affrontare un problema, dal nostro modo di pensare.

La sintomatologia.

Il DSM-V definisce tale disturbo come segue:

“Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei seguenti sintomi:

  • Palpitazioni, tachicardia;
  • Sudorazione;
  • Tremori fini o grandi scosse;
  • Dispnea o sensazioni di soffocamento;
  • dolore o fastidio al petto;
  • Nausea o dolori addominali;
  • Parestesie;
  • Brividi o vampate;
  • Paura di impazzire o morire;
  • Sensazione di vertigine o instabilità;
  • Derealizzazione o depersonalizzazione.

La maggior parte degli individui ha episodi di panico occasionali in cui la causa della paura è evidente, ad esempio la minaccia di un incidente stradale. Anche le crisi di panico prevedibili sono angosciose, mentre quelle inaspettate possono essere particolarmente sconcertanti e preoccupanti. La frequenza e l’intensità degli attacchi di panico sono mutevoli; posso essere moderatamente frequenti, ad esempio verificarsi una a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, posso essere più brevi ma più frequenti e comparire tutti i giorni, ancora, possono trascorrere periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti.

Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia. Il soggetto percepisce questo lasso di tempo come interminabile, dove i normali processi di ragionamento sono compromessi. Il panico è un episodio in cui il soggetto esperisce un’intensa paura che è accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento (es: “la mia mente si svuota”) e una sensazione di catastrofe imminente e improvvisa (es: segno di morte o di pazzia). Ad esempio, il soggetto può avere un attacco se interpreta la confusione mentale come il segnale di un impazzimento o qualche secondo di tachicardia come il segno di un infarto in corso. Generalmente la paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono piuttosto comuni nei soggetti a cui viene diagnosticata un DAP.

Comportamenti conseguenti.

Solitamente, nel momento in cui si verifica un secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. In questo caso il soggetto potrebbe cominciare a temere il panico stesso e iniziare ad avere “paura della paura”. Infatti, ripetuti attacchi di panico possono portare ad una limitata mobilità in cui, il soggetto, tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Di conseguenza, pianificano un itinerario, il momento in cui farlo e le varie possibilità di fuga.

In casi gravi, la lista dei luoghi da evitare si allunga progressivamente; ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il recludersi in casa. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che può intervenire qualora ne avessero bisogno. Durante la crisi il soggetto si sente come in trappola e il suo pensiero principale è quello di scappare, e ciò può portare l’individuo a mettere in atto un comportamento rischioso, come guidare ad alta velocità o uscire da un edificio precipitosamente.

Un altro possibile effetto è la permanenza in un sistematico stato di allerta, dove l’attenzione, l’immaginazione, la memoria e la memorizzazione avranno caratteristiche di selettività per sensazioni ed informazioni attinenti la possibilità di perdere il controllo e dunque vi sarà una maggiore disponibilità di informazioni di pericolo. Tale stato di allarme favorirà inoltre la comparsa dell’ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico.

Il trattamento.

Per quanto riguarda l’effetto dell’ansia sul comportamento, è molto frequente che si vada a strutturare tutta una serie di comportamenti protettivi e di ricerca di sicurezza. Tali comportamenti potrebbero prevenire esperienze disconfermanti la pericolosità della minaccia immaginata e che talvolta contribuiscono a peggiorare i sintomi temuti rendendo più probabile l’attacco; nel caso del ricorso all’iperventilazione, ad esempio, può aumentare la sensazione di soffocamento.  E’ da sottolineare l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta ad una relazione di tipo diadico in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro partner.

Esistono dei protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico i quali sottolineano tutti l’importanza di una corretta ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Workshop Costellazioni Familiari 21-22 aprile

Centro Psicologia Monterotondo – Costellazioni Familiari Workshop 21 – 22 aprile 2018

Il seminario sulle Costellazioni Familiari è a numero chiuso fino ad un massimo di 20 iscritti

Ogni famiglia, come ogni sistema (squadra, gruppo, corpo, ambiente di lavoro, ambiente scolastico, stirpe, razza, nazione, ecc.), possiede delle proprie regole e valori spesso non esplicitati e acquisiti dai componenti del sistema in modo inconsapevole. Il metodo delle Costellazioni Familiari, che rende visibili nello spazio i processi profondi utilizzando persone estranee tra loro, viene utilizzato per la prima volta da Moreno, il medico fondatore dello psicodramma. Bert Hellinger ne ha fatto un metodo di lavoro sulla famiglia.

Con le Costellazioni Familiari vengono portate alla luce le dinamiche nascoste che ci mantengono legati alla nostra famiglia e ci fanno appartenere a quel gruppo: queste lealtà a valori, idee, leggi, del sistema che spesso sono “invisibili”, ci spingono ad attuare dei comportamenti che condizionano sia la nostra vita che i nostri sentimenti. Attraverso la connessione con il Campo Cosciente – la rete di informazioni presente intorno a noi – si può entrare in contatto con informazioni importanti su ciò che disturba o favorisce l’equilibrio nelle relazioni tra i componenti del sistema, migliorando in genere la relazione con se stessi e con il mondo, in un processo graduale e creativo di consapevolezza, accettazione e riparazione.

Indagare su noi stessi

Tramite le Costellazioni Familiari possiamo indagare e cercare soluzioni su:
-Famiglia d’origine e attuale
-Coppia e relazioni
-Separazioni o perdite dolorose
-Situazioni di vita difficili
-Stress, ansia, senso di colpa, aggressività, insicurezza
-Senso di non appartenenza
-Carenza della gioia di vivere
-Situazioni spiacevoli che si ripetono ciclicamente

Ciò che è più grande negli esseri umani è ciò che li rende uguali a tutti gli altri. Qualsiasi altra cosa che dèvi più in alto o più in basso da ciò che è comune a tutti gli esseri umani ci sminuisce. Solo essendo consapevoli di questo possiamo sviluppare un profondo rispetto per ogni essere umano.”

Bert Hellinger

Come si svolge:

Dal gruppo dei partecipanti si scelgono i rappresentanti per i vari membri familiari e si dispongono nello spazio in relazione l’uno con l’altro. Da questo momento i rappresentanti spesso si sentono e si comportano proprio come le persone che rappresentano, benché ne’ il terapeuta ne’ loro stessi abbiano ricevuto alcuna informazione preventiva sui fatti iniziali.
In questo modo, secondo il posto che questi occupano come sostituti di membri familiari, possono essere individuati i legami nascosti e le “lealtà invisibili”.

Il metodo delle Costellazioni Familiari consiste non tanto nel cercare di rimuovere il problema, quanto piuttosto nel facilitare il Protagonista a rivolgersi verso la Soluzione, la quale non può essere anticipata o prevista razionalmente, ne’ indicata, ma deve essere vista o percepita emergere da sé nella dinamica della rappresentazione sistemica stessa. La constatazione della realtà oggettiva, o comunque della realtà relativa al momento presente del sistema stesso, stimola l’accettazione consapevole di nuovi punti di vista. Ed è proprio questa rinnovata consapevolezza ciò che porta alla soluzione, essendo in parte essa stessa “La Soluzione”. Portando l’attenzione alla soluzione, piuttosto che al problema, permettiamo al nostro cuore di aprirsi ad una comprensione più profonda di ciò che siamo veramente. Imparando a vedere “ciò che è”: senza giudicare ne essere giudicati.

Il workshop sarà condotto dallo Psicologo Leonardo Magalotti. Specializzato in Psicoterapia della Gestalt, Psiconcologo, si occupa di nascita delle modalità relazionali e costruzione dei legami nell’infanzia, Video Micro Analisi, Umorismo nella Psicoterapia. Docente al Corso di Formazione in Psicologia Oncologica all’Istituto Regina Elena di Roma. http://www.magalotti.info/#home

Come Partecipare

COSTO 130 EURO DI CUI 50 EURO ALLA PRENOTAZIONE  – Termine ultimo per l’iscrizione 15 Aprile 2018
Per confermare la prenotazione è necessario versare 50 euro come acconto e caparra PRESSO IL CENTRO PSICOLOGIA MONTEROTONDO
oppure attraverso un BONIFICO sul seguente IBAN IT2300760105138200909200910
(poste PayEvolution intestata ad Andrea Di Gennaro- referente del workshop presso il Centro)

Causale ”COSTELLAZIONI APRILE MONTEROTONDO”

Per motivi organizzativa vi preghiamo di inviare ricevuta del pagamento tramite mail digennaro.andrea[at]gmail.com
oppure nome e cognome del/dei partecipanti tramite sms al numero: 328.7962471
Restiamo a disposizione per ogni chiarimento

Dott. Andrea Di Gennaro 328.7962471

Cervelli in movimento: una tempesta costruttiva

Risorse umane, una tempesta costruttiva

All’interno di un gruppo di lavoro, quale che sia la sua dimensione, dall’azienda al piccolo gruppo con un obiettivo specifico, possiamo assistere a fenomeni di tensione, nervosismo e apprensione. Questi stati d’animo negativi portano, nel migliore dei casi, a un abbassamento della soglia della motivazione che conduce il lavoratore a rendere di meno o con standard qualitativi inferiori rispetto al solito. Da parte nostra, cosa possiamo fare? Quali sono le parole più giuste? Quali azioni sono le più idonee per fronteggiare situazioni “sfavorevoli”? Oltre a concentrare l’attenzione sul budget, sul target, sui bilanci o sui resoconti, perché non sfruttare la risorsa più importante che abbiamo?

La forza creativa del gruppo

Parliamo della risorsa umana, i nostri collaboratori. Coinvolgerli, farli sentire parte integrante, risorsa di inestimabile valore. Quando eravamo bambini i giochi in gruppo erano quelli più divertenti, quelli fatti con i nostri compagni di scuola erano i più fantasiosi,  i giochi inventati con fratelli o cugini erano quelli più geniali. Non a caso i lavori di gruppo presentati a scuola erano i più colorati e pregni di informazioni! Ecco, tornando indietro nel tempo, tutto questo può essere riadattato alla realtà del lavoro in gruppo e può esserci molto utile. Riprendendo, solo per uno spunto, la scuola della Gestalt (la psicologia della Gestalt, detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania) la quale sostiene che “L’insieme è più della somma delle sue parti” e tenendo vivido il ricordo dei giochi in comitiva, ecco che l’immagine che ci viene in mente è nitida e concreta: il gruppo.

Quando siamo di fronte ad un problema le cui soluzioni non bastano, non sono innovative, originali; quando abbiamo bisogno di nuovi spunti, nuove prospettive o nuovi progetti ma nulla ci viene in soccorso, cosa possiamo fare? Mettiamo insieme un gruppo di collaboratori, diamogli uno spunto, e giochiamo insieme …. il risultato sarà sorprendente! Mi riferisco alla tecnica del brainstorming, letteralmente una tempesta di idee, una tecnica dove vince la creatività di gruppo e che stimola l’emergere di nuove idee che portano alla soluzione di un problema.

Il metodo del brainstorming

Il metodo del brainstorming iniziò a diffondersi nel 1957, mediante il libro di A. F. Osborn “Applied Imagination” . La tecnica del brainstorming ha molte applicazioni pratiche, nella pubblicità, nell’arte, nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche nella creazione e gestione di progetti e processi. E’ una tecnica largamente utilizzata in numerose realtà aziendali. Consiste in una discussione di gruppo guidata da un animatore che ha il compito di far venire a galla il più alto numero di idee sull’argomento proposto. Idee di ogni tipo, le più assurde, bizzarre, eccentriche e stravaganti. Durante tutta la seduta ogni idea è accolta e ascoltata e solo al termine di tale sessione vengono fatte critiche e scremate le idee emerse. Alcune ricerche hanno dimostrato che evitare il giudizio immediato è altamente produttivo sia per il singolo che per l’interazione di gruppo. Nelle sedute di brainstorming possiamo rintracciare tre momenti fondamentali tra le quali la definizione del problema, e quindi capire dove c’è bisogno di un intervento  di tipo creativo, la produzione delle idee nuove, e la decisione e scrematura delle idee. E’ fondamentale tenere presente che l’animatore ricopre un ruolo chiave poiché deve  avere padronanza del problema proposto, soprattutto in merito ai limiti e ai punti dove si può osare maggiormente. Il gruppo dei partecipanti può essere eterogeneo per specializzazione, ruolo, mansione o cultura. Nella sessione è d’obbligo l’espressione libera di tutte le idee e  la censura di ogni tipo di ironia o critica. L’ideatore stesso sostiene che tale tecnica può essere dieci volte più produttiva rispetto a riunioni definite convenzionali.

Nonostante il brainstorming sia stato sottoposto a critiche, è comunque la tecnica più utilizzata che, grazie ai suoi limiti e ai suoi punti di forza, ha aperto la strada a numerose tecniche basate sulla creatività.  Ritornando a noi, perché non “sfruttare” le risorse umane che abbiamo in campo? Magari in un giorno in cui le idee vengono meno, dove il problema sembra insormontabile e l’inventiva non ci aiuta. Magari in un periodo come questo, dove numeri, segni meno e conti in rosso schiacciano ogni nostra fantasia. Forse proprio il silenzioso collaboratore del reparto qualità, il ragazzo della logistica o l’apprendista del recupero crediti possono avere in serbo una potenziale idea che, adeguatamente strutturata e organizzata, può essere per il nostro gruppo di lavoro un punto a favore.