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Fuori dall’armadio: Affettività, identità, omofobia

Lgbt e oltre

Orientarsi nel mondo LGBTQI+ non è affatto semplice. Lo stesso acronimo lo rende evidente, poiché include nella stessa comunità le persone lesbiche, bisessuali, gay, transessuali, intersessualità, “queer”. E’ usato per indicare tutti coloro che non si sentono rappresentati dall’orientamento sessuale eterosessuale.

LGBT

Come si è arrivati dalla contrapposizione classica tra eterosessualità e omosessualità alla moltitudine di dimensioni affettive e sessuali che la letteratura psicologica oggi riconosce negli esseri umani? Per capirlo sembra utile partire da una ironica e provocatoria affermazione di Alfred Kinsey.

Nel trattato “Sexual Behavior in the Human Male” (1948), riportando i dati della più vasta indagine mai svolta sul comportamento sessuale degli esseri umani, Kinsey affermava che

Questo mondo non dovrebbe essere diviso tra pecore e capre. E’ un principio fondamentale della tassonomia il fatto che la natura raramente ha a che fare con categorie separate […]. Il mondo vivente è un continuum in ognuno dei suoi vari aspetti”.

Un nuovo sguardo sull’omosessualità

A partire dalle ricerche di Kinsey e di Evelyn Hooker, la letteratura scientifica ha iniziato quel lento percorso di revisione scientifica e clinica dell’omosessualità, che si è mosso in due direzioni fondamentali:

  1. riconoscere che l’omosessualità è sia normale sia diffusa;

  2. riconoscere che l’omosessualità è solo una delle infinite varianti naturali del comportamento sessuale umano.

In queste linee, nel 1972 L’American Psychological Association cancella l’omosessualità dalle patologie psichiatriche. A partire dal 1974, la voce omosessualità” viene eliminata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). LOrganizzazione Mondiale della Sanità descrive lomosessualità come una variante naturale del comportamento sessuale umano. Afferma inoltre che nessuna terapia può essere messa in atto per modificare lorientamento sessuale.

Per capire di più: sesso biologico, identità di genere, stereotipi di genere, orientamento sessuale

Iniziamo a precisare che il sesso biologico può essere definito come l’appartenenza su base genetica al genere maschile o al genere femminile. Il sesso biologico, definito dal corredo cromosomico, già nello sviluppo fetale determina lo sviluppo di organi sessuali primari coerenti con il patrimonio genetico. Nel momento della pubertà e dell’adolescenza, lo stesso corredo cromosomi indurrà lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie.

In realtà, esistono in natura varianti intersessuali, cioè con corredo cromosomico appartenente ad entrambi i sessi biologici. Alla nascita si manifestano organi sessuali di entrambi i sessi, senza informazioni sul tipo di carattere sessuale secondario che si svilupperà primariamente nell’adolescenza.

Lidentità di genere riguarda il modo in cui Io penso il mio sesso biologico, ovvero se mi penso un essere umano maschile o femminile. Questa percezione di sé, estremamente precoce, prescinde dal sesso biologico, anzi può essere in contrasto con il sesso biologico. In tal caso, ci troviamo di fronte ad una “disforia di genere”. E’ la percezione che il proprio corpo non corrisponda alla propria identità di genere e che pertanto sia necessario un “allineamento” per riconoscersi finalmente nel corpo “giusto”.

Lo stereotipo di genere o aspettativa di genere indica invece il comportamento che la società si aspetta da un essere umano sulla base del suo essere maschile o femminile. Si tratta di un ambito di prescrizioni molto vasto, fortemente determinato dalla cultura di riferimento. Lo stereotipo può portare a individuare uomini “effeminati” o donne che si comportano da “maschiacci”.

Infine, l’orientamento sessuale indica la predisposizione a provare un’attrazione affettiva ed erotica verso una persona del sesso opposto al proprio (eterosessualità) o dello stesso sesso (omosessualità) o entrambi (bisessualità).

Tutte queste variabili sono presenti contemporaneamente nello stesso individuo, ma possono modificarsi nel corso della vita. Diventa dunque chiaro che la complessità del mondo LGBT sta in questo suo potersi declinare in modi assolutamente vari e complessi.

E il pregiudizio eterosessista?

Vista la complessità del comportamento affettivo, relazionale e sessuale umano, diventa chiaro che l’eterosessualità sia solo una delle molteplici sfaccettature con cui un individuo può esprimere, in un dato momento, la propria predisposizione affettiva, relazionale e sessuale.

Anzi, il pregiudizio eterosessista è quella struttura sociale dominante per cui un qualunque individuo si considera eterosessuale a meno che non dica il contrario. Questo pregiudizio è fortemente sostenuto dalle campagne pubblicitarie che veicolano le aspettative di genere e dalle convinzioni comuni operanti a livello sociale. Una persona LGBT viene così sottoposta a uno stress, il cosiddetto Minority Stress o “stress di minoranza” (Lingiardi).

Una persona LGBT, per effetto del pregiudizio eterosessista, sarà portata a pensarsi inizialmente come eterosessuale. Quando avrà una maggiore consapevolezza della sua identità di genere o del suo orientamento sessuale percepirà la propria “devianza della norma”, che solitamente si manifesta in ansia, vissuti depressivi, senso di colpa, senso di inadeguatezza, vissuti di vergogna e disistima profondi.

Uscire fuori dall’armadio

Da questa discrepanza inizia per una persona LGBT il lungo processo di autoconsapevolezza chiamato comunemente Coming Out, dall’espressione coming out of the closet, ovvero uscir fuori dall’armadio.

Nel corso degli anni, la letteratura psicologica ha elaborato tanti modelli teorici che spiegassero le diverse fasi del coming out. In generale tutti i modelli sul Coming Out concordano nel ritenerlo un processo che ha inizio dall’accettazione di sé e si allarga alla condivisione della propria identità con familiari e amici. E’ un processo che dura tutta una vita e si muove lungo le tre direttrici fondamentali della autoconsapevolezza, della costruzione della propria identità e della condivisione della stessa identità.

E’ in ultima analisi anche un percorso in cui si può uscire dall’isolamento e costruire la propria identità sulla base dell’appartenenza alla comunità LGBT nelle sue mille sfaccettature.

Una psicoterapia per persone LGBT e uno sportello LGBT

Questo breve sguardo che abbiamo gettato insieme sul mondo LGBT ha messo in risalto una realtà talmente tanto complessa e delicata che ha convinto – e ci ha convinto – della necessità di terapeuti specializzati nelle tematiche LGBT, che sappiano sostenere il percorso del coming out e le persone LGBT nella difficile lotta all’omofobia.

Presso il Centro Psicologia Monterotondo si può pertanto portare avanti un percorso terapeutico specifico che aiuti a :

  • superare l’ansia e la vergogna;

  • elaborare la propria identità;

  • portare avanti il proprio coming out;

  • affrontare questioni legate all’omofobia, interiorizzata o sociale.

Per questi motivi, abbiamo inoltre pensato di proporre uno sportello permanente di consulenza gratuita, che può essere effettuata anche in forma anonima. La consulenza sarà rivolta soprattutto ai giovani e giovanissimi che precocemente si confrontano con dubbi continui sulla propria sessualità e affettività. Il supporto è dedicato anche ai genitori, che a volte non riescono a trovare il modo di decifrare i silenzi dei loro figli via via sempre più chiusi e solitari.

Lavorare sul corpo produce benefici per la mente?

“Ehi! come stai?”

“Bene, grazie. Ma chi sei?”                                                          lavorare sul corpo per gestire lo stress

”Non ti ricordi di me?”

“Ora che ti guardo bene mi ricordi qualcosa ma onestamente non saprei,  dove ci siamo conosciuti?”

“Questo mi fa sorridere ….”

“Puoi dirmi chi sei così …mettiamo fine a questo….??”

“Sono il tuo corpo. SONO IL TUO CORPO. Pensa, siamo insieme da tanto tempo eppure non ricordi bene chi sono. Viviamo insieme, trascorriamo intere e intense giornate, lunghe notti, grandi esperienze, terribili momenti, traumi, gioie, ansie e tensioni. Io sono la tua memoria. Sento, percepisco, immagazzino, reagisco, mi adatto. Faccio tante cose per te e ti aiuto a vivere ogni giorno rispondendo alle tue emozioni. Che peccato che tu non sappia bene chi sono io, che non mi ascolti abbastanza, che i messaggi che ti invio vengano da te ignorati. Se solo mi lasciassi parlare, se solo ti fermassi un momento ad ascoltare, se solo tu mi conoscessi di più, ti renderesti conto quale risorsa sono per te, di quanto, se ben trattato, posso aiutarti”.

Se il corpo parlasse (e la mente ascoltasse)

Ecco, chissà se qualcuno si è ritrovato in questo dialogo immaginario, se qualcuno di voi ha sorriso o se si è detto “io conosco benissimo il mio corpo e i suoi segnali”. In questo inventato scambio di battute il corpo richiama l’attenzione della mente e la invita a prestargli interesse, valorizzando quanto può offrirgli.

Le nostre giornate sono lunghe, la tensione fisica è alta così come lo è la tensione mentale, il livello di ansia cresce, e la respirazione diaframmatica diviene sconosciuta ai più. Immaginiamo quanto segue: rientriamo a casa dopo una giornata intensa, densa di impegni e appuntamenti, dove emozioni diverse e contrastanti si sono susseguite senza tregua, senza avere il tempo di metabolizzare. Il respiro corto, i muscoli in tensione, sempre pronti a scattare. Ci sdraiamo sul divano, guardiamo il soffitto e, facendo un respiro profondo, ci concediamo qualche minuto di riposo. Ma i nostri muscoli sono veramente distesi? Hanno ancora un po’ di tensione residua? E i pensieri? Come li stiamo elaborando? Come stiamo effettivamente gestendo questo momento di “rilassamento”?

Il nostro stile di vita, che fa assomigliare la nostra quotidianità più a una gara che lascia col fiato sospeso che a un vero e proprio percorso di vita, conferisce ancora più importanza all’imparare a rilassarsi.

Lavorare sul corpo consapevolmente

Consideriamo come punto di partenza il fatto che il corpo sia entrato a far parte della pratica della psicoterapia: ciò indica che il nostro corpo è una fonte inesauribile di microscopici segnali che, se ben ascoltati ed accolti, possono per noi divenire un potenziale considerevole per la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri punti di forza. “Soma e psiche seguono il principio dei vasi comunicanti, dunque le conseguenze di una mal interpretazione delle emozioni e delle sensazioni si riversa sul nostro fisico. Quando la nostra intimità è, per così dire, bloccata, i nostri muscoli diventano tesi, contratti e la respirazione è superficiale e ridotta al minimo indispensabile. Naturalmente questa situazione di blocco è tendenzialmente inconsapevole”.

Attraverso proprio il lavoro di decontrazione dei muscoli e della respirazione, i segnali, le emozioni e le sensazioni passano a un livello di consapevolezza, divenendo così più ricettivi nei confronti di noi stessi. A questo proposito, sarebbe importante che ognuno di noi avesse a sua disposizione delle strategie di rilassamento efficaci. Le tecniche di rilassamento possono aiutare a lavorare sul corpo per favorire uno stato di benessere attenuando sintomi sia di origine somatica che fisica. In generale possono aiutare la persona a gestire meglio quelle situazioni di vita quotidiana che sono altamente stressanti.

Il Rilassamento Muscolare Progressivo

Come modello di riferimento prendiamo il Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson. Tale tecnica è stata elaborata dalla statunitense attorno agli anni 30 e, a differenza di altre tecniche, ha escluso quasi totalmente la parte psicologica del rilassamento, concentrandosi solo ed esclusivamente sull’aspetto neuromuscolare. Da un punto di vista clinico, Jacobson ha elaborato un training che permette di imparare a rilassarsi senza controindicazioni ed è di larga applicazione. Lo stress induce tensione muscolare e mentale e anche da questo derivano malattie psichiche e fisiche. Ridurre la tensione muscolare potrebbe divenire un antidoto per la prevenzione.

Jacobson si interessa alla tensione muscolare sotto il punto di vista neurofisiologico e le sue prime ricerche hanno come protagonista il sussulto: il sussulto in una persona è facilitato da uno stato di tensione, questo infatti non avviene quando il soggetto è disteso. Egli dimostrò come i processi mentali, le emozioni, etc., sono associate a movimenti neuromuscolari che alterano il normale tono di riposo.

Focus sul corpo

Prima sono stati chiamati in causa i pensieri. Nel training viene data molta importanza a questi che non vengono contrastati ma solo assecondati, ma la concentrazione è sull’ascolto del corpo, una concentrazione sensoriale e non su pensieri o altri elementi ambientali.

Il programma di rilassamento segue il principio di gradualità, ovvero ogni step del training e del processo di generalizzazione avviene gradualmente e per fasce muscolari, tenendo ovviamente in considerazione le abilità acquisite (senso muscolare) e delle caratteristiche soggettive.

La generalizzazione è la metodologia secondo la quale si applica la tecnica del rilassamento alla vita quotidiana al fine di gestire gli eventi stressanti, stress soggettivi e/o ambientali, che creano uno stato di ansia. Tendenzialmente le persone che hanno appreso tale tecnica di rilassamento dicono di riuscire ad applicarlo anche in contesti di vita quotidiana: in ufficio; mentre aspettano l’autobus; seduti sulla sedia. Viene proposto anche ai bambini che possono applicarlo anche in classe stringendo una pallina di gomma. Per chi insegna tale tecnica diviene obiettivo prioritario quello di saper portare il paziente in una condizione di ascolto del proprio corpo. Per concludere, lavorare sul corpo può essere una risorsa straordinaria nella gestione dello stress.

Un disturbo diffuso: l’attacco di panico

Un attacco di panico è un episodio in cui un soggetto esperisce un’intensa paura, accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento e un senso di catastrofe imminente. La paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono comuni nei soggetti cui viene diagnosticato il disturbo attacco di panico (DAP).

Quando può verificarsi un attacco di panico

Il Disturbo di Panico è una patologia molto discussa e comune, che abbiamo già affrontato in modo approfondito in un articolo del maggio scorso. Viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne rispetto agli uomini (Apa, 2013) ma i sintomi sono simili nei due sessi.

Il primo attacco di panico si verifica tra l’adolescenza ed i 30/35 anni, spesso in coincidenza con un periodo di forte stress o di situazioni quali: a) instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere in grado di affrontare i pericoli della vita; b) eventi incentrati sulla separazione come il divorzio, l’allontanamento dalla famiglia per ragioni di lavoro o altro; c) fattori stressanti esterni: malattia o morte di una persona cara, una malattia, problemi relazionali, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi imprevedibili, ecc.; d) fattori stressanti interni cioè il nostro modo di pensare, di gestire un problema, ecc.; e) familiarità: studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo.

Come può manifestarsi un attacco di panico

Intensità e frequenza dell’attacco di panico sono variabili. Ad esempio possono avere luogo una volta a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, o possono essere più brevi ma comparire tutti i giorni; ancora, possono trascorrere lunghi periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti. Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia.

Spesso, al verificarsi del secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. Il soggetto tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il chiudersi in casa.

La persona può esperire stati di ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che intervenga qualora ne avessero bisogno. Va evidenziata l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta a una relazione in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro.

Come trattare un attacco di panico

I protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico sottolineano l’importanza di una ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Durante il seminario che si terrà il 12 Gennaio 2019 presso il Centro Psicologia Monterotondo, avremo modo di parlare insieme dell’ansia e degli attacchi di panico ma soprattutto avremo modo, insieme, di sperimentare una prima seduta della tecnica del Rilassamento Muscolare Progressivo. Consideriamo come punto di partenza il fatto che il corpo sia entrato a far parte della pratica della psicoterapia. Ciò indica che il nostro corpo è fonte inesauribile di microscopici segnali che, se ascoltati e accolti, possono divenire un potenziale considerevole per la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e dei nostri punti di forza.

Soma e psiche seguono il principio dei vasi comunicanti, dunque le conseguenze di una scorretta interpretazione delle emozioni e delle sensazioni si riversa sul nostro fisico. Quando la nostra intimità è, per così dire, bloccata, i nostri muscoli diventano tesi, contratti e la respirazione è superficiale e ridotta al minimo. Naturalmente questa situazione di blocco è tendenzialmente inconsapevole. Attraverso un lavoro di decontrazione dei muscoli e della respirazione, segnali, emozioni e sensazioni passano ad un livello di consapevolezza, divenendo così più ricettivi nei confronti di noi stessi.

Rilassamento Muscolare Progressivo: una presentazione gratuita sabato 12 gennaio presso il Centro Psicologia Monterotondo

Il rilassamento muscolare progressivo è una tecnica di rilassamento attivo basata sull’alternanza contrazione/distensione dei muscoli. L’origine è da rintracciarsi cinquanta anni fa, quando Jacobson ha pubblicato la prima edizione degli studi relativi alla tecnica di rilassamento. Il training è uno dei metodi più semplici ed efficaci per contrastare la condizione di stress e promuovere la propria salute psicofisica. Si basa sul presupposto che i processi mentali e le emozioni siano associati a manifestazioni neuromuscolari che alterano il normale tono di riposo.

Ogni pensiero, ogni percezione, ogni emozione si correla ad una modificazione del tono muscolare, coinvolgendo globalmente tutto il sistema nervoso, endocrino e muscolare. Attraverso il training di rilassamento muscolare possiamo imparare quali sono le tensioni presenti nel nostro corpo e che si riflettono nella nostra mente. Le fasi del training di rilassamento muscolare possono essere così elencate:

1) allenamento a percepire la tensione muscolare attraverso esercizi di contrazione e decontrazione;

2) addestramento a riconoscere quando i muscoli non sono completamente contratti o completamente distesi;

3) fare esperienza circa la condizione di mente passiva.

Due sono le finalità del training di rilassamento:

  1. indurre delle modificazioni sul sistema neurovegetativo attraverso esercizi di contrazione-decontrazione muscolare. Questo processo è sostenuto dalla tesi che la distensione muscolare induce quella mentale. L’esperienza di mostra che la distensione della muscolatura apporta una sensazione di calma. Quando si raggiunge lo stato di rilassamento si verificano effetti positivi anche a livello cardiorespiratorio. Di conseguenza la concentrazione di adrenalina nel sangue si abbassa e si produce uno stato di calma;

  2. altro obiettivo che si pone il training è quello della generalizzazione, ovvero l’autocontrollo e la gestione delle proprie tensioni in condizioni di vita quotidiana. Una volta appresi gli esercizi in un setting terapeutico, la persona è competente nel proporlo in qualsiasi circostanza. Questo avviene nel tempo, quando la persona diviene consapevole dei suoi stati. La generalizzazione non avviene per suggestione ma per impegno diretto del paziente.

Costellazioni Familiari

Le Costellazioni Familiari sono un metodo di presa di coscienza e risoluzione di una vasta gamma di problematiche che derivano dalla famiglia di origine. Queste possono manifestarsi nella vita di ogni giorno sul piano del benessere individuale, delle relazioni interpersonali, del processo di auto-realizzazione.

Attraverso le Costellazioni Familiari possiamo infatti prendere coscienza di ingiustizie, esclusioni e privazioni vissute dai nostri antenati. Queste memorie dolorose potrebbero essere arrivate fino a noi e inficiare in qualche misura la nostra vita. Lasciando agire la rappresentazione scenica, possiamo comprendere a fondo l’origine di ciò che stiamo vivendo, reintegrare le informazioni mancanti per rimettere ordine nel sistema.

Risolvere nodi antichi

Il metodo delle Costellazioni Familiari aiuta a ricostruire la propria linea genealogica. Inoltre consente di prendere coscienza di traumi (malattie, guerra, morti, fallimenti), ingiustizie e privazioni vissuti nel sistema familiare, sociale e culturale. Tutte queste informazioni vengono infatti trasmesse dagli antenati ai discendenti.

Non è cosa semplice: molto spesso quello che viene rappresentato nelle costellazioni è uno scenario sconosciuto e inedito. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto la costellazione ci mostra non solo quello che già sappiamo (per cui riconosciamo con stupore certi atteggiamenti e comportamenti riportati precisamente dai rappresentanti); il vero contributo di una costellazione consiste nello svelarci quello che non sappiamo riguardo la nostra famiglia.

La cosa importante è aprirsi alle informazioni che arrivano, accogliere con fiducia anche le rivelazioni più sconcertanti. Talvolta capita che la costellazione riveli addirittura informazioni sconosciute al cliente, ma puntualmente confermate da successive indagini. In ogni caso, qualunque cosa emerga dalla costellazione, il nostro livello di coscienza è in grado di elaborarlo e di assimilarlo, aumentando la nostra consapevolezza e permettendo così al nostro campo morfogenetico di riassestarsi più in profondità.

Come funzionano le Costellazioni Familiari

Gli elementi fondamentali per effettuare una Costellazione Familiare sono tre: un facilitatore, un cliente e dei rappresentanti.

  • Il FACILITATORE imposta il set fenomenologico in cui si sviluppa la costellazione, indaga assieme al cliente la tematica che si vuole esplorare e, sulla scorta della sua esperienza e competenza, porta la costellazione a una soluzione efficace.

  • Il CLIENTE è l’elemento fondamentale di una costellazione. E’ colui che porta la domanda su cui lavorare, che deve essere chiara e rilevante, ovvero non generica ed evasiva, bensì focalizzata su una tematica che richieda una soluzione. Ma soprattutto il cliente è importante perché è il suo campo morfogenetico che viene rappresentato fenomenologicamente, a cui si collegano il facilitatore e i rappresentanti.

  • I RAPPRESENTANTI sono generalmente persone (ma possono essere anche oggetti) su cui vengono proiettati dal campo morfogenetico taluni aspetti dei membri del sistema familiare. In genere (ma dipende dalla tecnica utilizzata dal facilitatore) possono esprimersi liberamente e spontaneamente, dando uno sviluppo dinamico alla costellazione.

Concretamente, dopo una breve indagine sulla tematica portata dal cliente e sulla situazione genealogica e sistemica, il cliente formula la domanda cui tenterà di dare risposta grazie alla costellazione. Il cliente dispone nello spazio previsto (o invita a disporsi liberamente) i rappresentanti della sua famiglia, o del suo partner, o delle sue relazioni affettive, lavorative, personali. Poi si siede e osserva.

I rappresentanti entrano in connessione con il campo morfico del soggetto e agiscono guidati da dinamiche spontanee, portando alla luce il vissuto emotivo delle persone reali o delle situazioni che rappresentano. In genere, nel giro di qualche minuto la costellazione arriva a uno stallo, a un blocco o un congelamento: è il cosiddetto irretimento, in cui vediamo la situazione “reale” del sistema familiare del soggetto, assistiamo all’emersione del nodo o del nucleo problematico del sistema.

Solamente la visione e la presa di coscienza di questo dato potrebbe bastare al cliente per destrutturare una serie di blocchi interiori e giungere a nuove consapevolezze riguardo se stesso e il proprio sistema; ma in genere si cerca di effettuare un aggiustamento della situazione, di esercitare un ruolo attivo nella ridefinizione del sistema.

Attraverso quindi un misurato e graduale cambiamento delle posizioni dei rappresentanti nello spazio, spontaneamente o attraverso l’intervento del facilitatore, si riporta il sistema nel giusto ordine: una rinnovata armonia dentro la quale il soggetto interessato riprende il suo posto e ristabilisce le corrette relazioni con i membri del suo sistema.

Riflessioni sulla coppia: terapia di coppia e sostegno psicologico

Riflessioni sulla coppia: conflitto e violenza

coppiaCon l’ultimo “femminicidio” di pochi giorni fa il numero di donne uccise dall’inizio dell’anno è arrivato a 49! E purtroppo questa è solo la punta dell’iceberg. Il numero di coppie  che vive in situazione di conflitto è difficile da calcolare ma sicuramente molto grande. Fortunatamente non tutte finiscono in omicidio o violenza, ma la sensazione è che il fenomeno sia molto diffuso. Questo è confermato anche nella realtà in cui viviamo, la richiesta di Terapia di coppia a Monterotondo copre circa la metà di tutte le richieste di intervento psicologico. Cosa sta succedendo? E’ cambiato qualcosa o è sempre stato così ed ora ce ne accorgiamo di più grazie ai mass media?

La coppia, intesa come relazione più o meno duratura tra due individui di sesso diverso, esiste in natura, almeno nel mondo animale, ed il suo significato biologico è la riproduzione e quindi la continuità della specie. Tra i mammiferi ci sono molti esempi di animali che formano coppie che durano molto più del tempo necessario alla procreazione e all’accudimento dei piccoli, per esempio i lupi formano coppie che durano anche per tutta la vita.

Quando ci occupiamo dell’essere umano, come sempre, le cose si complicano moltissimo.  La sola biologia non basta ad analizzare e cercare di capire le complesse dinamiche di coppia che si creano tra due esseri umani, basti pensare a sempre crescente numero di coppie omosessuali, il cui scopo principale non è certo la procreazione. Quindi oltre la biologia abbiamo bisogno della psicologia, della sociologia, dell’antropologia per cogliere l’intreccio di fattori culturali, sociali, ambientali, storici che regolano i rapporti di coppia nelle società così dette evolute e civili.

E’ indubbio, tutti lo cogliamo, che ci sia una forte spinta a formare delle coppie, tanto che nella maggior parte delle culture, la coppia è l’elemento base su cui si basa la società, o forse sarebbe meglio parlare di famiglia, che altro non è che la coppia dopo che ha espletato il suo compito biologico, la riproduzione. Ma, come detto prima, “l’uomo” è andato oltre, infatti possiamo vedere molte coppie che scelgono consapevolmente di non avere figli. Dobbiamo quindi ipotizzare una “spinta” verso la formazione di una coppia che risponde ad altre esigenze, di natura più psicologica*.

La ricerca del partner.

Perché, allora, tendiamo a cercare un partner? Probabilmente la risposta più semplice ed immediata è “perché non ci piace stare soli”, e questa risposta trova riscontro in moltissimi studi ed in molte teorie della moderna psicologia. Il bisogno di contatto (anche e soprattutto fisico), il bisogno di riconoscimento, il bisogno di condividere le esperienze che facciamo sono ormai universalmente riconosciuti come caratteristiche distintive degli esseri umani. A questo ovviamente vanno aggiunti fattori culturali (“comunque ad una certa età ci si sposa”), economici (trovare un buon partito), politici (durante il fascismo il matrimonio era quasi un obbligo sociale) che fanno sì che l’istituzione coppia abbia avuto un grande successo nella storia dell’uomo. Ma dato che noi siamo psicologi, vediamo di analizzare la cosa da un punto di vista psicologico. Quindi le domande che ci porremo sono: Con quale criterio scegliamo il nostro o la nostra partner? Come mai a volte sembra che scegliamo la persona più sbagliata possibile? Come mai portiamo avanti ottusamente relazioni che evidentemente non funzionano?  Perché a volte diventiamo aggressivi e violenti invece di andarcene semplicemente? Naturalmente qui faremo solo delle ipotesi, se sapessimo rispondere con assoluta certezza a queste domande avremmo risolto uno dei più grandi problemi dell’umanità.

Possiamo cominciare prendendo in esame una cosa semplice e lampante: nasciamo tutti “da” una relazione di coppia (ci vogliono due individui di sesso diverso, anche se oggi esistono tecniche tali che permettono di avere un figlio anche da soli) ed “in” una relazione di coppia,   quella composta da noi stessi e da nostra madre. Questa relazione è fondamentale per la nostra sopravvivenza (senza la mamma un piccolo umano non è in grado di cavarsela) ma anche per il nostro sviluppo fisico e psicologico. Probabilmente proprio questa relazione madre-figlio sarà alla base di tutte le altre relazioni della nostra vita, ed in particolare alla “relazione di coppia”.

Emotività: un codice che si crea fin dalla nascita

Ci serve una piccola digressione sul nuovo nato: chi è? Cosa vuole? Come funziona? Le teorie psicologiche sono molte, ma alcuni punti sono sicuramente condivisi ed in sintonia con il comune buon senso. I neonati sono “individui”, vale a dire delle unità psico-fisiche perfettamente funzionanti, dotate di tutte le risorse e le strategie necessarie per sopravvivere, a patto che ottengano la “collaborazione” dell’ambiente in cui vivono (fondamentalmente la madre).

Quello che vogliono è sostanzialmente avere risposte ai propri bisogni, in fretta e adeguate.

Funzionano per lo più secondo il principio del piacere-dispiacere, se tutto va bene se ne stanno tranquilli, altrimenti mettono in atto le loro strategie per ottenere il piacere e ristabilire l’equilibrio. Così il bambino ha fame – strilla fino a che non viene nutrito – poi torna tranquillo. Sembra tutto semplice e lineare, potrebbe funzionare bene, ma……..  possono  succedere molti “incidenti”. Ad esempio la madre potrebbe non riuscire ad interpretare il bisogno del bambino (lui ha mal di pancia e la madre gli dà cibo), oppure per qualche motivo non ha voglia di occuparsene, o magari il bambino è istituzionalizzato. Quindi il nostro bambino cresce apprendendo quali “strategie” funzionano nel suo ambiente e quali no, inoltre crescendo acquisisce nuove abilità (motorie, linguistiche, logiche, sociali) che userà per crearne di nuove, più sofisticate, mentre il suo ambiente si allarga sempre più (dalla famiglia alla scuola ai gruppi di pari, al mondo del lavoro, alla società in genere). Fondamentalmente scopre che per ottenere soddisfazione ai propri bisogni non basta a sé stesso, ha bisogno “dell’altro” (per ottenere cibo non basterà più strillare, bisognerà imparare a chiedere e ad attendere, e ad un certo punto anche procurarselo da solo). Anche i bisogni cambiano, e si fanno più complessi. Dai primordiali bisogni di nutrimento, accudimento (coccole), calore al bisogno di riconoscimento, di conoscenza, di autonomia, di struttura, che mi sento di definire “sani” ai bisogni reali o indotti che la nostra società ha creato (bisogno di i-phone?), meno sani, ai bisogni “nevrotici”, “non sani”.

Credo che possiamo suddividere le strategie in due grandi categorie: quelle basate sulla collaborazione e quelle basate sulla manipolazione. Naturalmente non dobbiamo considerarle come categorie assolute, spesso i due aspetti si fondono. Le strategie collaborative si basano sul riconoscimento dell’altro come individuo uguale a noi e portatore di bisogni proprio come noi. Quindi andranno nella direzione: “vediamo come è possibile trovare insieme soddisfazione ai nostri bisogni” e presuppongono la capacità di rinunciare a qualcosa. Le strategie manipolative si basano sul riconoscimento dell’altro unicamente come soggetto che può rispondere ai nostri bisogni e vanno nella direzione:” come posso costringerlo?”, l’ipotesi di rinunciare è molto remota.

Coppia e sessualità.

Torniamo alla nostra coppia. Abbiamo visto quanti elementi concorrano alla costruzione di una relazione adulta, psicologici, ambientali, sociali ecc., ma noi ci stiamo occupando di una particolare relazione, quella tra due adulti, che in qualche modo decidono di condividere parti importanti della loro vita. E qui entra in ballo un altro elemento, dirompente, la sessualità. Questo è l’ambito più “immediato” (nel senso che ha poche mediazioni di tipo sociale-linguistico, ci riporta al primitivo ambito senso-motorio) della relazione e quello in cui si manifestano più direttamente (e a volte drammaticamente) i conflitti.

Ora forse abbiamo le idee un pochino più chiare sui criteri con i quali scegliamo il partner: deve essere in grado di soddisfare i nostri bisogni, dai più arcaici (poco consapevoli) a quelli reali e, ahimè, soprattutto a quelli nevrotici. Lo stile con il quale cercheremo di ottenere la nostra soddisfazione sarà quello che abbiamo appreso nella nostra infanzia e poi perfezionato nell’arco della nostra vita. Inoltre probabilmente cercheremo quelle persone che somiglino il più possibile alle nostre figure di riferimento in modo da trovarci su un terreno “conosciuto”, anche se la maggior parte delle volte ha funzionato male. E questo che ad un osservatore esterno appare come “scelta sbagliata” (“non capisco proprio perché quei due stiano assieme”). E’ sbagliata se pensiamo ad un rapporto ideale, è giusta se risponde ai criteri di cui sopra: ricreare una situazione nota, nella quale in qualche modo me la sono cavata, senza riuscire a immaginare niente di diverso. E questo risponde alla domanda “perché certe relazioni vanno avanti anche quando sembrano terribili?”.  E comunque la paura di “perdere tutto” è spesso ciò che sostiene la relazione.

Forse il quadro che emerge è un po’ fosco, ma devo dire che la mia lunga esperienza clinica nella terapia di coppia, ma ancor più la mia esperienza di vita (quella che abbiamo tutti), mi hanno restituito l’idea di una “istituzione” veramente in crisi, in cui i conflitti la fanno da padroni, certo con tutte le sfumature possibili come detto all’inizio.

Sostegno psicologico: La terapia di coppia.

Infine qualche parola sulla terapia di coppia o meglio “della coppia”. In ogni relazione di coppia ci sono tre elementi: i due partner e la relazione. E’ evidente che si può pensare di intervenire su ognuno dei tre elementi o anche su tutti. Personalmente ritengo che il primo passo sia capire se la coppia ha ancora (se mai lo ha avuto) uno “spazio” in cui costruire o ricostruire una relazione sufficientemente sana. Se questo non c’è credo sia dovere del terapeuta aiutare la coppia a fare una buona separazione (compito di solito non facile). In secondo luogo valutare le rispettive motivazioni, risorse e capacità al fine di impostare un lavoro di presa di consapevolezza dei meccanismi che regolano il funzionamento della coppia (secondo lo schema sinteticamente mostrato in questo articolo), ed infine esplorare le possibilità di cambiamento. Non escludo una prima fase in cui uno dei partner (o anche tutti e due) faccia un breve percorso individuale al fine di rendere più equilibrato il successivo lavoro. In un buon funzionamento della coppia c’è veramente molto da guadagnare per tutti, per i partner, per i loro figli e per tutto l’ambiente circostante. Ovviamente non necessariamente c’è bisogno dell’intervento dello psicologo, a volte basta dedicare un po’ di tempo a parlarsi, esprimere con chiarezza e senza paura i nostri bisogni, rendersi conto che la coppia necessita impegno e non dare mai nulla per scontato.

 

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Genitore e genitorialità. Scopriamo quali sono le differenze

genitorialitàGenitore e genitorialità: quali differenze.

Genitorialità, questo termine è ormai entrato nel vocabolario corrente e come spesso capita se ne usa ed abusa, non sempre con cognizione di causa. Il termine richiama immediatamente la parola genitore (colui o colei che genera), termine sul quale siamo più o meno tutti d’accordo. Dal punto di vista biologico (ci limiteremo a parlare del mondo animale) quando due individui della stessa specie si accoppiano e producono una nuova vita, diventano “genitori”, ed in genere sanno abbastanza bene cosa devono fare, nel senso che hanno già dentro di loro gli schemi comportamentali necessari per garantire al neo-nato/a le migliori possibilità, non solo di sopravvivenza, ma di sviluppo armonico, di apprendimento di tutte le abilità necessarie per vivere una vita soddisfacente e, non ultimo, la possibilità di diventare a sua volta “genitore”.

E’ evidente come quando cominciamo ad occuparci degli esseri umani le cose si facciano più complicate. Mentre per gli animali, salvo alcune eccezioni, il ruolo di genitore spetta esclusivamente o quasi alla madre, negli esseri umani la coppia genitoriale tende a mantenersi anche dopo il concepimento e la nascita di una nuova vita, e questa condizione tende a durare per periodi molto lunghi, a seconda del periodo storico e della cultura in cui si vive. Gli animali esercitano la funzione genitoriale per periodi di tempo più o meno lunghi, ma nessun altro mammifero, come l’uomo, per anni e a volte decenni. Nei secoli, con il cambiare delle culture, le rivoluzioni nei campi della conoscenza e dell’organizzazione, le nostre società si sono fatte sempre più complesse, e di conseguenza anche il ruolo e le funzioni richieste ai genitori si sono notevolmente complicati. Tanto che abbiamo coniato il termine “genitorialità”.

La definizione che ne danno i dizionari è piuttosto lapidaria: “La condizione di genitore e, anche, l’idoneità a ricoprire effettivamente il ruolo di padre o di madre.”, ma apre una serie di domande a cui non è facile dare risposta. “Idoneità” richiama immediatamente altri termini: capacità, adeguatezza ecc. e ci porta alla domanda che tutti (o quasi) si pongono: “Ma com’è un buon genitore, e cosa fa?

Ora, diremo subito che non esiste né una definizione, né un codice di comportamento, né un manuale per diventare buoni genitori. Se per una gatta garantire al proprio cucciolo di poter mangiare, di non essere mangiato, di poter crescere fino a potersela cavare da solo apprendendo le abilità necessarie, nonché provvedere anche all’aspetto “psicologico”, ovvero una quantità adeguata di coccole, è già cosa piuttosto complicata, possiamo immaginare quanto sia difficile garantire ad un cucciolo umano, in una società sempre più complessa, caratterizzata da rapporti interpersonali sempre più difficili, con livelli di competitività elevatissimi, una crescita ed uno sviluppo adeguati a renderlo capace di essere “felice”.

Finora ho trattato l’essere umano alla stregua degli altri animali, ma questo è chiaramente troppo riduttivo. Gli esseri umani si differenziano dagli altri animali nella esplicazione della genitorialità, non per l’aspetto biologico, ma per quello che definiremo psicologico. La genitorialità non si esaurisce nell’atto della procreazione ma essa produrrà significativi cambiamenti sia individuali che relazionali che determineranno tutta la vita di un individuo. Intanto, come detto, nelle culture contemporanee è la coppia genitoriale che ha il compito di allevare, proteggere, istruire, preparare e possibilmente amare la prole. Quindi è fondamentale la dimensione di coppia, e di una coppia particolare: la coppia genitoriale.

Non basta generare un figlio per diventare genitori.

Ma tutti sono in grado di essere genitori? Se da un punto di vista biologico la risposta è si, basta aver raggiunto la maturità sessuale, da un punto di vista psicologico le cose sono più complesse. Non basta generare un figlio per diventare genitori, possiamo invece pensare ad uno sviluppo della personalità umana che passa attraverso delle fasi. Possiamo chiamarle (usando la terminologia di Berne) la fase del Bambino, dell’Adulto e del Genitore. Queste fasi sono solo parzialmente legate all’età anagrafica. Certo nessuno considera un bambino di 7 anni come un adulto, ed in effetti a 7 anni non abbiamo gli  strumenti  e le capacità per occuparci di un altro bambino. Per contro non è detto che a 40 anni tutti abbiano sviluppato una capacità genitoriale. Inoltre abbiamo già accennato alla dimensione di coppia, sappiamo tutti per esperienza come passare da una dimensione individuale ad una di coppia possa essere un percorso tortuoso, che richiede una riorganizzazione a livello psicologico, una presa di coscienza profonda dell’esistenza dell’altro/a e dei suoi bisogni, dei possibili (o quasi certi) conflitti che questo determinerà e della necessità di operare dei compromessi e delle rinunce. Insomma già questo appare un compito non facile, ma qualora si sia riusciti in questa ardua impresa, al momento della nascita di un figlio/a bisogna ricominciare daccapo. La dimensione non è più quella della coppia, ma di un trio (per il primo figlio, poi le cose si complicano ancora di più), e per giunta non è più un rapporto paritario (almeno così si spera in un rapporto di coppia), ma un rapporto assolutamente sbilanciato, dove i bisogni e le necessità del piccolo devono necessariamente essere posti in primo piano. La dolce mogliettina che prima si occupava di te con tanto amore ora è completamente presa dal nuovo/a arrivato, il dolce maritino, sempre premuroso ora mal sopporta la situazione e tende ad allontanarsi, manca il tempo e lo spazio per la vita di coppia, in compenso il piccolo/a richiede (e spesso a gran voce) continua attenzione e cura. Insomma il cambiamento è imponente e richiede una grande capacità di adattamento.

Essere genitori significa avere a che fare con un organismo che cresce, che cambia, soprattutto nei primi anni , ad una velocità impressionante. Nell’arco di sei anni si passa da una creatura capace più o meno solo di manifestare i suoi bisogni strillando ad un individuo dotato di linguaggio e capacità di relazione (nonché di manipolazione). In altre parole le esigenze e i bisogni del bambino cambiano continuamente man mano che cresce ed è necessario che i genitori si adeguino a questi cambiamenti. Esempio banale: alla nascita il bambino viene allattato (sperabilmente al seno), poi comincia a mangiare delle pappe per cui deve essere imboccato, poi piano piano comincia a mangiare di tutto e anche a farlo da solo. Questi passaggi sono determinati dallo sviluppo fisiologico, ma anche culturale. Insomma, se immaginiamo una mamma che continui ad imboccare suo figlio anche quando ha 10 anni ci rendiamo conto che qualcosa non va, anche se tutti e due apparentemente sono soddisfatti, la mamma perché può continuare a fantasticare di avere un bimbo piccolo da accudire, il bambino perché non deve impegnarsi ad apprendere nuove abilità. Ma il risultato sarà un bambino regredito, non pronto ad affrontare le sfide che il mondo gli porrà.

Più il figlio cresce, meno ha bisogno di interventi da parte dei genitori, anzi, il suo bisogno più importante è proprio quello di conquistare la sua autonomia e quindi dovremmo vedere un percorso al contrario che piano piano riporta la coppia al suo stato di partenza secondo lo schema  coppia>coppia genitoriale> coppia. Durante questo percorso entrano in gioco molti elementi: le esperienze che ognuno di noi ha fatto con i propri genitori ed il modo in cui le ha interiorizzate; i dettami culturali in cui il processo avviene e che suggeriscono modelli genitoriali diversi; le condizioni socio-economiche-culturali; nonché le caratteristiche personali del bambino, che non è una “tabula rasa” su cui i genitori scrivono, ma un individuo complesso che partecipa attivamente al processo stesso.

Le funzioni della genitorialità.

Insomma, ciò che definiamo genitorialità  è qualcosa di molto vasto e complesso, per mettere un po’ di ordine possiamo  analizzare le sue funzioni o meglio i suoi modi di esprimersi ed in maniera schematica possiamo individuare:

FUNZIONE PROTETTIVA –  non solo la protezione dai pericoli e dagli elementi esterni potenzialmente dannosi, ma anche protezione da stimoli interni (il bambino che ha mal di pancia sarà sicuramente sollevato dalle attenzioni di un genitore). Questa funzione è alla base dell’attaccamento che tanto determinerà i futuri rapporti del bambino.

FUNZIONE AFFETTIVA – parliamo qui della “sintonizzazione affettiva” da parte dei genitori con il loro piccolo, la voglia di vivere emozioni positive insieme a lui e la creazione di uno “spazio affettivo” entro il quale potrà crescere.

FUNZIONE REGOLATIVA – Il bambino ha bisogno di organizzare e regolare i suoi stati emotivi e le sue risposte comportamentali, le cure dei genitori lo aiutano in questo processo evitando di dare risposte che non gli  lasciano il tempo di esprimere adeguatamente i suoi bisogni o , al contrario di non dare risposte o ancora di dare risposte non in sincronia con i bisogni stessi. Per esempio, rispetto al cibo, rispettare il ciclo appetito>manifestazione>soddisfazione e non cercare di prevenire continuamente l’appetito o magari costringerlo a mangiare qualcosa che non vuole.

FUNZIONE NORMATIVA – consiste nella capacità di dare dei limiti, una struttura di riferimento, una cornice e corrisponde a quel bisogno fondamentale del bambino che è i bisogno di avere dei confini, di vivere dentro una struttura di comportamenti coerenti. Questo comporta da parte dei genitori la capacità di dire  “no”, di accettare un po’ di frustrazione da parte di loro figlio, non come qualcosa che lo danneggerà, ma al contrario qualcosa che lo rafforzerà e lo renderà capace di vivere adeguatamente in ambito socia

Genitori imperfetti.

In conclusione possiamo dire che il concetto di Genitorialità sfugge ad una facile definizione, sicuramente cambia con i tempi, le culture, le aree geopolitiche ed economiche. Ma di sicuro c’è un elemento fondante comune: la capacità di garantire ai nuovi nati la possibilità di uno sviluppo sano, durante il quale siano rispettati i bisogni, le aspirazioni, le necessità di ogni individuo. Come già detto, non esistono manuali o regole precise, e bisogna aver ben chiaro che non esiste il genitore perfetto, quello che non sbaglia mai e fa sempre la cosa migliore, esiste invece il genitore che si interroga, che riflette sui propri stati d’animo, che conosce e “riconosce” la propria storia e ne trae insegnamento, che rispetta sempre suo figlio in quanto “essere umano autonomo” e che, soprattutto, lo ama …. senza se e senza ma.

 

Centro Psicologia Monterotondo.

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Attacchi di panico: sintomi, cause e trattamento

Cos’è un attacco di panico. 

Il Disturbo da attacco di Panico è uno dei disturbi più comuni ed è una delle patologie su cui si è più discusso negli ultimi anni. Si tratta di un disturbo che può comportare anche gravi disagi personali, lavorativi e sociali e ha una rilevante diffusione e l’età di esordio del disturbo di panico si colloca tra l’adolescenza ed i 30/35 anni. Nonostante le manifestazioni cliniche del disturbo siano simili nei due sessi, le donne hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo rispetto agli uomini, infatti viene diagnosticato con una frequenza doppia nelle donne (Apa, 2013).

Inoltre, sono frequenti le ripercussioni negative sulla qualità della vita, quali abuso di alcool, droghe o farmaci, e problemi economici, familiari e relazionali. Il primo attacco di panico si può verificare per diverse ragioni, ma possiamo vedere dalla storia dei pazienti che molto spesso coincide con un periodo di tensione o di stress elevati.

I fattori di rischio.

Sono considerati fattori di rischio:

  1.  eventi stressanti incentrati sulla separazione (per es. lasciare la casa dei genitori per andare a vivere da soli, lasciare la famiglia per lunghi periodi per ragioni di lavoro o altro, divorziare);
  2.  instabilità della famiglia originaria che determina insicurezza sotto forma di sensazione di non essere equipaggiati per affrontare adeguatamente i pericoli della vita;
  3.  familiarità: molti studi dimostrano che se l’età di esordio del disturbo di panico è inferiore ai 20 anni, i parenti di primo grado hanno una probabilità venti volte maggiore di sviluppare lo stesso disturbo;
  4.  fattori stressanti esterni quali la malattia o la morte di una persona cara, la presenza di malattie in famiglia, la propria malattia, problemi relazionali con il coniuge o i parenti, problemi finanziari, perdita o pressioni sul lavoro, eventi incontrollabili e/o imprevedibili, ecc.;
  5.  fattori stressanti interni che sono rappresentati dal modo in cui siamo abituati ad affrontare un problema, dal nostro modo di pensare.

La sintomatologia.

Il DSM-V definisce tale disturbo come segue:

“Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei seguenti sintomi:

  • Palpitazioni, tachicardia;
  • Sudorazione;
  • Tremori fini o grandi scosse;
  • Dispnea o sensazioni di soffocamento;
  • dolore o fastidio al petto;
  • Nausea o dolori addominali;
  • Parestesie;
  • Brividi o vampate;
  • Paura di impazzire o morire;
  • Sensazione di vertigine o instabilità;
  • Derealizzazione o depersonalizzazione.

La maggior parte degli individui ha episodi di panico occasionali in cui la causa della paura è evidente, ad esempio la minaccia di un incidente stradale. Anche le crisi di panico prevedibili sono angosciose, mentre quelle inaspettate possono essere particolarmente sconcertanti e preoccupanti. La frequenza e l’intensità degli attacchi di panico sono mutevoli; posso essere moderatamente frequenti, ad esempio verificarsi una a settimana manifestandosi regolarmente per mesi, posso essere più brevi ma più frequenti e comparire tutti i giorni, ancora, possono trascorrere periodi senza attacchi o con episodi meno frequenti.

Le crisi di panico improvvise durano tendenzialmente tra i 10 ed i 20 minuti dove l’individuo prova angoscia e, subito dopo, può provare debolezza rimanendo in uno stato di ansia. Il soggetto percepisce questo lasso di tempo come interminabile, dove i normali processi di ragionamento sono compromessi. Il panico è un episodio in cui il soggetto esperisce un’intensa paura che è accompagnata da sensazioni corporee e mentali spiacevoli, difficoltà di ragionamento (es: “la mia mente si svuota”) e una sensazione di catastrofe imminente e improvvisa (es: segno di morte o di pazzia). Ad esempio, il soggetto può avere un attacco se interpreta la confusione mentale come il segnale di un impazzimento o qualche secondo di tachicardia come il segno di un infarto in corso. Generalmente la paura di morire, di perdere conoscenza, di comportarsi in modo strano e/o urlare, di perdere il controllo o di impazzire sono piuttosto comuni nei soggetti a cui viene diagnosticata un DAP.

Comportamenti conseguenti.

Solitamente, nel momento in cui si verifica un secondo episodio, il soggetto inizia a temere che si verificheranno altri episodi divenendo ansioso e apprensivo e sviluppando un modello di comportamento evitante. In questo caso il soggetto potrebbe cominciare a temere il panico stesso e iniziare ad avere “paura della paura”. Infatti, ripetuti attacchi di panico possono portare ad una limitata mobilità in cui, il soggetto, tende ad evitare le situazioni in cui potrebbe presentarsi un attacco ed in cui è difficile attuare una fuga. Di conseguenza, pianificano un itinerario, il momento in cui farlo e le varie possibilità di fuga.

In casi gravi, la lista dei luoghi da evitare si allunga progressivamente; ogni nuovo episodio di panico incrementa la lista di un altro ambiente pericoloso e, in casi estremi, la persona finisce con il recludersi in casa. I soggetti che hanno crisi di panico sono bisognosi di una presenza rassicurante, di una persona fidata che può intervenire qualora ne avessero bisogno. Durante la crisi il soggetto si sente come in trappola e il suo pensiero principale è quello di scappare, e ciò può portare l’individuo a mettere in atto un comportamento rischioso, come guidare ad alta velocità o uscire da un edificio precipitosamente.

Un altro possibile effetto è la permanenza in un sistematico stato di allerta, dove l’attenzione, l’immaginazione, la memoria e la memorizzazione avranno caratteristiche di selettività per sensazioni ed informazioni attinenti la possibilità di perdere il controllo e dunque vi sarà una maggiore disponibilità di informazioni di pericolo. Tale stato di allarme favorirà inoltre la comparsa dell’ansia anticipatoria che, come è noto, facilita l’insorgenza del panico.

Il trattamento.

Per quanto riguarda l’effetto dell’ansia sul comportamento, è molto frequente che si vada a strutturare tutta una serie di comportamenti protettivi e di ricerca di sicurezza. Tali comportamenti potrebbero prevenire esperienze disconfermanti la pericolosità della minaccia immaginata e che talvolta contribuiscono a peggiorare i sintomi temuti rendendo più probabile l’attacco; nel caso del ricorso all’iperventilazione, ad esempio, può aumentare la sensazione di soffocamento.  E’ da sottolineare l’importanza dei fattori relazionali sul mantenimento del disturbo: la coppia di un paziente con disturbo di panico si riduce talvolta ad una relazione di tipo diadico in cui il disturbo dell’uno è strumentale alla necessità di controllo e di vicinanza dell’altro partner.

Esistono dei protocolli di trattamento psicoterapico per il disturbo di attacchi di panico i quali sottolineano tutti l’importanza di una corretta ristrutturazione delle credenze e valutazioni del problema; si interviene quindi anche con una buona psicoeducazione. Fra le opzioni, la terapia cognitivo comportamentale utilizza tecniche che possono essere impiegate durante il trattamento: l’esposizione enterocettiva, l’esposizione in vivo, l’utilizzo della flash card e la tecnica del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Workshop Costellazioni Familiari 21-22 aprile

Centro Psicologia Monterotondo – Costellazioni Familiari Workshop 21 – 22 aprile 2018

Il seminario sulle Costellazioni Familiari è a numero chiuso fino ad un massimo di 20 iscritti

Ogni famiglia, come ogni sistema (squadra, gruppo, corpo, ambiente di lavoro, ambiente scolastico, stirpe, razza, nazione, ecc.), possiede delle proprie regole e valori spesso non esplicitati e acquisiti dai componenti del sistema in modo inconsapevole. Il metodo delle Costellazioni Familiari, che rende visibili nello spazio i processi profondi utilizzando persone estranee tra loro, viene utilizzato per la prima volta da Moreno, il medico fondatore dello psicodramma. Bert Hellinger ne ha fatto un metodo di lavoro sulla famiglia.

Con le Costellazioni Familiari vengono portate alla luce le dinamiche nascoste che ci mantengono legati alla nostra famiglia e ci fanno appartenere a quel gruppo: queste lealtà a valori, idee, leggi, del sistema che spesso sono “invisibili”, ci spingono ad attuare dei comportamenti che condizionano sia la nostra vita che i nostri sentimenti. Attraverso la connessione con il Campo Cosciente – la rete di informazioni presente intorno a noi – si può entrare in contatto con informazioni importanti su ciò che disturba o favorisce l’equilibrio nelle relazioni tra i componenti del sistema, migliorando in genere la relazione con se stessi e con il mondo, in un processo graduale e creativo di consapevolezza, accettazione e riparazione.

Indagare su noi stessi

Tramite le Costellazioni Familiari possiamo indagare e cercare soluzioni su:
-Famiglia d’origine e attuale
-Coppia e relazioni
-Separazioni o perdite dolorose
-Situazioni di vita difficili
-Stress, ansia, senso di colpa, aggressività, insicurezza
-Senso di non appartenenza
-Carenza della gioia di vivere
-Situazioni spiacevoli che si ripetono ciclicamente

Ciò che è più grande negli esseri umani è ciò che li rende uguali a tutti gli altri. Qualsiasi altra cosa che dèvi più in alto o più in basso da ciò che è comune a tutti gli esseri umani ci sminuisce. Solo essendo consapevoli di questo possiamo sviluppare un profondo rispetto per ogni essere umano.”

Bert Hellinger

Come si svolge:

Dal gruppo dei partecipanti si scelgono i rappresentanti per i vari membri familiari e si dispongono nello spazio in relazione l’uno con l’altro. Da questo momento i rappresentanti spesso si sentono e si comportano proprio come le persone che rappresentano, benché ne’ il terapeuta ne’ loro stessi abbiano ricevuto alcuna informazione preventiva sui fatti iniziali.
In questo modo, secondo il posto che questi occupano come sostituti di membri familiari, possono essere individuati i legami nascosti e le “lealtà invisibili”.

Il metodo delle Costellazioni Familiari consiste non tanto nel cercare di rimuovere il problema, quanto piuttosto nel facilitare il Protagonista a rivolgersi verso la Soluzione, la quale non può essere anticipata o prevista razionalmente, ne’ indicata, ma deve essere vista o percepita emergere da sé nella dinamica della rappresentazione sistemica stessa. La constatazione della realtà oggettiva, o comunque della realtà relativa al momento presente del sistema stesso, stimola l’accettazione consapevole di nuovi punti di vista. Ed è proprio questa rinnovata consapevolezza ciò che porta alla soluzione, essendo in parte essa stessa “La Soluzione”. Portando l’attenzione alla soluzione, piuttosto che al problema, permettiamo al nostro cuore di aprirsi ad una comprensione più profonda di ciò che siamo veramente. Imparando a vedere “ciò che è”: senza giudicare ne essere giudicati.

Il workshop sarà condotto dallo Psicologo Leonardo Magalotti. Specializzato in Psicoterapia della Gestalt, Psiconcologo, si occupa di nascita delle modalità relazionali e costruzione dei legami nell’infanzia, Video Micro Analisi, Umorismo nella Psicoterapia. Docente al Corso di Formazione in Psicologia Oncologica all’Istituto Regina Elena di Roma. http://www.magalotti.info/#home

Come Partecipare

COSTO 130 EURO DI CUI 50 EURO ALLA PRENOTAZIONE  – Termine ultimo per l’iscrizione 15 Aprile 2018
Per confermare la prenotazione è necessario versare 50 euro come acconto e caparra PRESSO IL CENTRO PSICOLOGIA MONTEROTONDO
oppure attraverso un BONIFICO sul seguente IBAN IT2300760105138200909200910
(poste PayEvolution intestata ad Andrea Di Gennaro- referente del workshop presso il Centro)

Causale ”COSTELLAZIONI APRILE MONTEROTONDO”

Per motivi organizzativa vi preghiamo di inviare ricevuta del pagamento tramite mail digennaro.andrea[at]gmail.com
oppure nome e cognome del/dei partecipanti tramite sms al numero: 328.7962471
Restiamo a disposizione per ogni chiarimento

Dott. Andrea Di Gennaro 328.7962471

Cervelli in movimento: una tempesta costruttiva

Risorse umane, una tempesta costruttiva

All’interno di un gruppo di lavoro, quale che sia la sua dimensione, dall’azienda al piccolo gruppo con un obiettivo specifico, possiamo assistere a fenomeni di tensione, nervosismo e apprensione. Questi stati d’animo negativi portano, nel migliore dei casi, a un abbassamento della soglia della motivazione che conduce il lavoratore a rendere di meno o con standard qualitativi inferiori rispetto al solito. Da parte nostra, cosa possiamo fare? Quali sono le parole più giuste? Quali azioni sono le più idonee per fronteggiare situazioni “sfavorevoli”? Oltre a concentrare l’attenzione sul budget, sul target, sui bilanci o sui resoconti, perché non sfruttare la risorsa più importante che abbiamo?

La forza creativa del gruppo

Parliamo della risorsa umana, i nostri collaboratori. Coinvolgerli, farli sentire parte integrante, risorsa di inestimabile valore. Quando eravamo bambini i giochi in gruppo erano quelli più divertenti, quelli fatti con i nostri compagni di scuola erano i più fantasiosi,  i giochi inventati con fratelli o cugini erano quelli più geniali. Non a caso i lavori di gruppo presentati a scuola erano i più colorati e pregni di informazioni! Ecco, tornando indietro nel tempo, tutto questo può essere riadattato alla realtà del lavoro in gruppo e può esserci molto utile. Riprendendo, solo per uno spunto, la scuola della Gestalt (la psicologia della Gestalt, detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania) la quale sostiene che “L’insieme è più della somma delle sue parti” e tenendo vivido il ricordo dei giochi in comitiva, ecco che l’immagine che ci viene in mente è nitida e concreta: il gruppo.

Quando siamo di fronte ad un problema le cui soluzioni non bastano, non sono innovative, originali; quando abbiamo bisogno di nuovi spunti, nuove prospettive o nuovi progetti ma nulla ci viene in soccorso, cosa possiamo fare? Mettiamo insieme un gruppo di collaboratori, diamogli uno spunto, e giochiamo insieme …. il risultato sarà sorprendente! Mi riferisco alla tecnica del brainstorming, letteralmente una tempesta di idee, una tecnica dove vince la creatività di gruppo e che stimola l’emergere di nuove idee che portano alla soluzione di un problema.

Il metodo del brainstorming

Il metodo del brainstorming iniziò a diffondersi nel 1957, mediante il libro di A. F. Osborn “Applied Imagination” . La tecnica del brainstorming ha molte applicazioni pratiche, nella pubblicità, nell’arte, nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche nella creazione e gestione di progetti e processi. E’ una tecnica largamente utilizzata in numerose realtà aziendali. Consiste in una discussione di gruppo guidata da un animatore che ha il compito di far venire a galla il più alto numero di idee sull’argomento proposto. Idee di ogni tipo, le più assurde, bizzarre, eccentriche e stravaganti. Durante tutta la seduta ogni idea è accolta e ascoltata e solo al termine di tale sessione vengono fatte critiche e scremate le idee emerse. Alcune ricerche hanno dimostrato che evitare il giudizio immediato è altamente produttivo sia per il singolo che per l’interazione di gruppo. Nelle sedute di brainstorming possiamo rintracciare tre momenti fondamentali tra le quali la definizione del problema, e quindi capire dove c’è bisogno di un intervento  di tipo creativo, la produzione delle idee nuove, e la decisione e scrematura delle idee. E’ fondamentale tenere presente che l’animatore ricopre un ruolo chiave poiché deve  avere padronanza del problema proposto, soprattutto in merito ai limiti e ai punti dove si può osare maggiormente. Il gruppo dei partecipanti può essere eterogeneo per specializzazione, ruolo, mansione o cultura. Nella sessione è d’obbligo l’espressione libera di tutte le idee e  la censura di ogni tipo di ironia o critica. L’ideatore stesso sostiene che tale tecnica può essere dieci volte più produttiva rispetto a riunioni definite convenzionali.

Nonostante il brainstorming sia stato sottoposto a critiche, è comunque la tecnica più utilizzata che, grazie ai suoi limiti e ai suoi punti di forza, ha aperto la strada a numerose tecniche basate sulla creatività.  Ritornando a noi, perché non “sfruttare” le risorse umane che abbiamo in campo? Magari in un giorno in cui le idee vengono meno, dove il problema sembra insormontabile e l’inventiva non ci aiuta. Magari in un periodo come questo, dove numeri, segni meno e conti in rosso schiacciano ogni nostra fantasia. Forse proprio il silenzioso collaboratore del reparto qualità, il ragazzo della logistica o l’apprendista del recupero crediti possono avere in serbo una potenziale idea che, adeguatamente strutturata e organizzata, può essere per il nostro gruppo di lavoro un punto a favore.

La depressione post partum: tra normalità e patologia

Depressione dopo il partoLa depressione post partum (DPP) è una condizione clinica comune che viene spesso trascurata. Secondo un’indagine svolta nel 2008, la depressione post partum insorge nel 13% delle donne durante le prime settimane dopo il parto mentre il 14.5% ha un nuovo episodio depressivo maggiore o minore nei primi tre mesi postnatali ed il 20% delle neomamme sperimenta una depressione puerperale entro il primo anno dopo il parto. Esordisce generalmente dopo 3-4 settimane dal parto e la sintomatologia diventa ingravescente verso il 4-5 mese dopo la nascita).

Non esiste una classificazione diagnostica specifica per la depressione post partum. I sintomi sono identici ad una depressione maggiore non puerperale ma come momento di insorgenza hanno la circostanza del parto (Bobo, Yawn, 2015).

Depressione post partum: sintomi e insorgenza

Lo studio della Depressione post partum affonda le sue radici nel lontano 1838, quando lo psichiatra Esquirol descrive per la prima volta la “follia puerperale”, evidenziando il collegamento temporale con il parto come peculiarità di alcune forme depressive. Ad oggi il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto. I criteri del DSM 5 per questo disturbo richiedono che siano presenti per un periodo di almeno due settimane: umore depresso come riportato dalla neomamma (per esempio si sente triste, vuota, disperata) o osservato da altri (per esempio appare lamentosa); marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno. Le donne possono presentare un’ideazione depressiva rispetto al proprio ruolo materno che si esprime con:

  • Percezione di esser incapaci di prendersi cura del figlio

  • Paura ed insicurezza nella gestione del bambino

  • Sentimenti ambivalenti o negativi verso il figlio

  • Percezione di isolamento dal contesto familiare.

La vulnerabilità legata alla gravidanza

La gravidanza non protegge la donna dallo sviluppo dei disturbi mentali al contrario, visti i processi psicologici coinvolti e il nuovo adattamento delle relazioni sociali, il periodo di gestazione rappresenta un momento di vulnerabilità sia per il ripresentarsi di precedenti patologie mentali sia per l’insorgenza nuovi disturbi (Picciau, Ottonello, Floris, Zonza, 2014).

Tra i principali fattori di rischio di depressione post partum in letteratura si riconoscono:

  • Storia psichiatrica pregressa

  • Precedente storia di psicopatologia in gravidanza o post partum

  • Familiarità per disturbi psichiatrici

  • Recenti eventi di vita stressanti (es.: lutti, malattie, aborti, violenza domestica)

  • Storia di abuso (fisico, sessuale, psicologico)

  • Relazione conflittuale con il partner

  • Mancanza di supporto familiare/sociale

  • Gravidanza non desiderata o non programmata

  • Vulnerabilità ormonale (es.: donne con storie di Sindrome Pre Mestruale SPM)

  • Patologia medica della madre (es.: disturbi tiroidei, diabete)

  • Complicanze fetali (es.: malformazioni primarie e/o secondarie)

  • Uso di sostanze psicoattive (stupefacenti, alcool, sostanze dopanti)

  • Giovane età

  • Nascita pre-termine, problemi di salute del bambino, temperamento difficile del bambino

  • Impossibilità di allattare

  • Difficoltà economiche

  • Essere primipare (Ossevatorio Nazionale sulla Salute della Donna, 2010).

È importante ricordare che una depressione post partum non curata tende a cronicizzare, diminuendo nella madre depressa la capacità di prendersi cura del neonato in modo adeguato e di sviluppare un’armonica relazione con il proprio figlio (Osservatorio Nazionale sulla salute della donna). Un adeguato interscambio madre-figlio sembra prevenire conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del bambino (Istituto Superiore di Sanità, Marzo 2015). La DPP si manifesta indipendentemente dall’età e dal numero di figli delle pazienti.

Il vissuto contrasta con l’ideale sociale della maternità

Il periodo della gravidanza viene considerata una fase di passaggio nella vita della donna con peculiarità che non possono essere rintracciate in altri periodi della vita della stessa. La donna, infatti, è impegnata in un cambiamento che interessa la sfera biologica, psicologica e relazionale. Inoltre, la gravidanza, implica un percorso di maturazione che culmina con la definizione di un nuovo ruolo, quello materno. La nuova realtà alla quale va incontro la donna include:

  • Un nuovo ruolo e il cambiamento delle relazioni sociali;

  • Una diversa identità e un nuovo assetto della relazione di coppia;

  • Un confronto con la figura materna e l’acquisizione della funzione materna;

  • La perdita della fusione con il bambino e l’istaurare una relazione di dipendenza con il neonato.

La donna, in questa “nuova vita”, deve far fronte alle continue richieste del neonato, ad una nuova organizzazione del proprio tempo, riorganizzazione delle proprie abitudini ed eventuali difficoltà nell’ambito lavorativo. Per questo motivo, spesso, in molte culture, tra le quali quella occidentale, l’immagine idealizzata della maternità è in forte contrasto con il vissuto intimo della puerpera. Anche il contesto familiare e sociale in cui vive la donna possono essere di supporto o meno. Infatti, il legame con il partner può essere sollecitato da alcuni ostacoli dovuti al nuovo assetto di vita e l’uomo può essere avvertito dalla compagna come poco collaborativo rispetto alle nuove richieste della famiglia. Anche la mancanza di una rete sociale, avversità economiche o un parto inaspettatamente problematico, possono agevolare lo sviluppo di manifestazioni depressive.

 Un supporto che accompagni il cambiamento

Appare quindi fondamentale una tempestiva diagnosi che permetta di distinguere le neomamme che ottengono un esito positivo e soddisfano i criteri diagnostici per la depressione post partum (che necessitano di un trattamento immediato) dalle neomamme che stanno “riorganizzandosi” e che nel percorso di cambiamento possono avere degli episodi depressivi che vanno considerarti fisiologici. L’obiettivo primario, in ogni caso, è quello della remissione totale della depressione post partum sia per un miglioramento della salute psichica della madre che per il benessere del neonato. In generale, le decisioni circa il trattamento da adottare (psicoterapia piuttosto che antidepressivi) vengono prese in base alla gravità dei sintomi, alle preferenze della paziente, alla disponibilità di risorse locali circa i servizi di salute mentale e le scelte della paziente in merito all’allattamento al seno, qualora vi fosse la necessità di un intervento farmacologico.